Fu il grande batteriologo e immunologo tedesco Paul Ehrlich, 1854-1915, ad introdurre per la prima volta la definizione di “horror autotoxicus”, letteralmente orrore dell’ autotossicità, per descrivere l’innata avversione del corpo umano all’autodistruzione immunologica. Ma si sbagliava, come più tardi ha dimostrato l’assistente di un suo allievo, Ernest Witebsky, scoprendo negli anni ’50 che l’ autoimmunità poteva avere gravi conseguenze nell’uomo. Come il diabete giovanile o diabete tipo 1, caratterizzato dalla distruzione autoimmune di beta-cellule delle isole pancreatiche con il compito di produrre insulina, l’ormone la cui funzione più nota è regolare i livelli di glucosio nel sangue.

Un concetto che, a distanza di due secoli, avrebbe folgorato sulla via per Damasco anche Paolo Fiorina, illustre diabetologo italiano portandolo ad una scoperta epocale: la cura del diabete. Docente di Endocrinologia all’ Università Statale di Milano e direttore della Divisione di Endocrinologia e diabetologia dell’ ASST milanese Fatebenefratelli Sacco, che comprende gli ospedali Sacco, Fatebenefratelli e Oftalmico, Macedonio Melloni, Buzzi, il Dott. Fiorina si divide tra la guida del Centro internazionale del diabete tipo 1, presso il Centro di ricerca “Romeo ed Enrica Invernizzi” di Milano e l’insegnamento alla prestigiosa Harvard Medical School di Boston, negli States. Last-but-not-least, è neopresidente eletto non ancora in carica della Società italiana di Diabetologia.

Uno Tsunami lungo e inarrestabile

La malattia diabetica, che 15 anni fa era paragonata dai media nazionali ad un’onda di “tsunami” che stava investendo tutto il mondo, sembra non recedere. «Secondo i dati più recenti è ancora in piena fase espansiva», conferma Fiorina. «Nei prossimi anni la popolazione mondiale supererà i 7,8 miliardi attuali e le persone con diabete passeranno dagli odierni 300 ai 400-450 milioni entro il 2030, con un incremento della prevalenza già ora intorno all’8-10% in Stati Uniti, Medioriente e alcune aree dell’Asia».

La buona notizia, rivela il diabetologo, è l’impatto positivo che oggi si osserva sulle complicanze soprattutto nei pazienti con diabete tipo 1 (T1D), ma anche tipo 2 (T2D). Grazie a nuovi farmaci, terapie innovative, microinfusori e biomarcatori altamente tecnologici è possibile ridurre la necessità dei pazienti con T1D di entrare in dialisi o la lunghezza delle liste di attesa per il trapianto di pancreas.

L’ antidiabetico che debella il Covid-19

Una delle ultime scoperte del team di ricercatori guidati da Fiorina, pubblicata su Diabetes Care, riguarda l’utilizzo di sitagliptin, un inibitore orale della dipeptidil peptidasi 4 (DPP-4) per il trattamento del T2D, nei pazienti diabetici colpiti da Covid-19, dimezzandone quasi la mortalità e migliorando drasticamente il ricorso a ventilazione assistita e terapia intensiva. «Dal punto di vista farmacologico questa molecola sembra agire non tanto sul versante glicometabolico, ma con un effetto antinfiammatorio e probabilmente antivirale, per quanto non si conosca ancora bene il suo meccanismo d’azione. Stante la situazione, sitagliptin potrebbe rivelarsi utile sia in pazienti con T1D o T2D, ma anche in pazienti senza diabete», spiega l’esperto. «Dal punto di vista clinico, invece, sono chiaramente i soggetti più anziani ad essere maggiormente esposti al rischio di sviluppare Covid con gravi complicanze. Quindi è possibile che si osservi un effetto maggiore del farmaco nei pazienti con T2D perché l’età media è tra i 68 e i 70 anni, mentre quella dei pazienti con T1D è intorno ai 40-42 anni. L’aspetto da approfondire, in tutti e due i casi, è la riduzione della glicemia indotta dal farmaco soprattutto in associazione con insulina, che richiede un’attenta valutazione nei pazienti con T1D».

Affrontare il problema a 360 gradi

Secondo il Dott. Fiorina, però, non sarà un unico farmaco a debellare la malattia. La terapia in realtà dovrà avere un duplice approccio: il primo in grado di agire sulla componente autoimmunitaria del T1D, il secondo sulla componente cellulare in senso sia protettivo/riparativo nei confronti delle beta-cellule pancreatiche sia di “ripopolamento” delle isole del pancreas attraverso la replicazione cellulare.

«In un primo studio abbiamo provveduto con la terapia genica ad aumentare la produzione di una proteina recettoriale fortemente antinfiammatoria, la PD-L1, che risulta deficitaria nei soggetti con T1D, inserendo di fatto in ogni cellula l’interruttore in grado di spegnere la risposta infiammatoria scatenata dal sistema immunitario», racconta Fiorina. «In un secondo studio abbiamo invece dimostrato che, bloccando l’asse epatico-pancreatico-intestinale, si riesce a migliorare la funzionalità delle beta-cellule. Una strategia che, in combinazione con l’immunoterapia, potrebbe migliorare le condizioni di salute dei pazienti con T1D se non addirittura guarirli».

Le nuove tecnologie, tra gli obiettivi delle quali c’è anche la messa a punto di un pancreas artificiale con sensori che misurano costantemente la glicemia e la regolano attraverso la somministrazione automatica di insulina sotto il controllo dell’intelligenza artificiale, non possono che essere complementari alla ricerca di nuovi farmaci per la cura del diabete. Un “ponte temporaneo”, come le definisce il diabetologo, verso la soluzione definitiva.

Dalla protomedicina allo screening di massa

C’è da chiedersi, di fronte a tutto questo ben di Dio tecnologico, se non sia possibile intercettare i primissimi segnali di diabete prima che la malattia faccia il suo corso e si manifesti in tutta la sua drammaticità. In fondo si tratta di fare un piccolo passo in avanti rispetto al test diagnostico dei medici medioevali che assaggiavano l’urina del malato o, qualche migliaio di anni prima, dei medici cinesi che delegavano alle formiche la prova dell’urina zuccherina.

«Banalmente, spiega Fiorina, senza scomodare la tecnologia più avanzata di diagnosi molecolare, per individuare i primi segnali di diabete sia di tipo 1 sia di tipo 2 basterebbe misurare la glicemia in modo molto più massiccio e diffuso. In questo modo si potrebbero cogliere, per esempio, gli episodi di disglicemia che compaiono precocemente nel giovane con T1D, così come sarebbe possibile individuare nel paziente a rischio di T2D le fasi, che peraltro possono durare anni, di malattia subclinica sommersa caratterizzata da livelli di glucosio nel sangue non ancora elevati, ma già fuori norma. Se poi volessimo essere più “moderni” e andare a misurare gli autoanticorpi nella popolazione scolastica, come hanno fatto le autorità sanitarie in Baviera, si potrebbero scoprire i bambini ad altissimo rischio di sviluppare T1D e attuare subito i provvedimenti del caso. Ma, ripeto, solamente con la misurazione della glicemia potremmo far emergere dai 6 ai 10 individui su 100 a rischio di diabete».

Ma gli effetti deleteri iniziano presto

Una malattia che, purtroppo, sembra avere un impatto significativo sull’apparato cardiovascolare fin dalla più tenera età. «È un’area grigia, questa, di cui si sa ancora veramente poco» avverte Fiorina. «Fino ad oggi si pensava che il danno cardiovascolare causato dal diabete avesse inizio dopo l’età adolescenziale. Tutti però ci chiediamo quando in realtà abbia inizio il danno cardiovascolare, sia nei bambini con T1D ma anche nei bambini con obesità e sindrome metabolica che sviluppano T2D già in età precoce. Dai nostri studi emerge che già nelle fasi pre-adolescenziali si intravvedono alcune anomalie cardiovascolari sistemiche, per esempio alterazioni dell’endotelio vasale o presenza di biomarcatori infiammatori, che in qualche modo predispongono bambini e adolescenti al futuro rischio cardiovascolare. Da qui la necessità di trattare precocemente questa popolazione giovane senza aspettare di vedere, più in là nel tempo, il paziente intorno ai 45 anni con un infarto cardiaco. Insomma, bisogna iniziare a fare prevenzione primaria anche nei giovani con diabete, che da adulti non possono e non devono assolutamente soffrire di disturbi e malattie cardiovascolari».

Giorgio Cavazzini

Paolo Fiorina

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