Mai come in questo periodo si sente la necessità di avere a disposizione farmaci sempre più nuovi, ma soprattutto efficaci, per contrastare tumori, malattie considerate, a torto, già scomparse dalla faccia della Terra, o epidemie come quella pandemica che stiamo sperimentando sulla nostra pelle. Le notizie sulla rincorsa al vaccino contro Covid-19 è cronaca quotidiana, e le Big Pharma non si fanno certo pregare.
Per fortuna diciamo noi. Ma qual è la trafila che consente ai farmaci di arrivare sul banco del farmacista per essere utilizzati da tutti?
Dal Lab alla real life saltando la fase III
Tradizionalmente l’iter per l’immissione in commercio di un medicinale prevede tre fasi di sviluppo (dalla I alla III), che i farmaci sottoposti a sperimentazione devono superare. Negli ultimi due decenni, però, entrambe le agenzie regolatorie che ne approvano l’uso nella pratica clinica, la Food and Drug Administration (FDA) americana e l’Agenzia europea per i medicinali (EMA), hanno introdotto diversi programmi cosiddetti di “accelerazione”, la FDA ne ha 4, mentre l’EMA ne ha 3, per abbreviare l’iter “normale” e bypassare l’ultima più impegnativa e lunga fase III.
Obiettivo
Obiettivo: dare la priorità a farmaci importanti per un accesso più rapido da parte dei pazienti e riservare una corsia preferenziale a molecole innovative in grado di promettere, e non garantire, un miglioramento della qualità di vita e della sopravvivenza dei malati rispetto alle terapie attualmente disponibili.
Il valore terapeutico dei nuovi farmaci
Ora, che valore terapeutico potranno avere i nuovi farmaci, la cui approvazione non avviene sul tavolo del confronto sperimentale con altri “competitor” già presenti negli scaffali della farmacia e con un pedigree consolidato, ma sempre più spesso in quella che viene definita fase “post marketing” del farmaco? In pratica nella vita reale di tutti quanti i cittadini a vantaggio o meno di chi li deve assumere. Difficile dirlo.
I ricercatori dell’ Università di Harvard a Boston e di Zurigo
A tentare di dare una risposta sono i ricercatori dell’ Università di Harvard a Boston e di Zurigo in Svizzera con uno studio clinico appena pubblicato sul British Medical Journal. Gli scienziati hanno analizzato l’associazione tra programmi di approvazione accelerata e i dati sul valore terapeutico per tutti i nuovi farmaci che hanno ricevuto il nulla osta da FDA (320) ed EMA (268) tra il 2007 e il 2017, forniti dalle autorità sanitarie di 4 paesi (Canada, Francia, Germania e Italia) e dall’organizzazione francese indipendente no profit Prescrire.
Il rischio di approvare farmaci meno sicuri
Alla fine, meno di un terzo di tutti i nuovi farmaci approvati da entrambi gli enti regolatori sono stati ritenuti di alto valore terapeutico da una qualsiasi delle 5 organizzazioni indipendenti, che tradotto in soldoni significa avere la capacità di fornire un miglioramento clinico dei pazienti da moderato a forte. Anzi, l’aumento di nuove approvazioni di medicinali osservato nell’ultimo decennio riguarderebbe in gran parte farmaci classificati a “basso valore terapeutico”, il che solleva subito una contestazione: la presenza sul mercato di un numero sempre più alto di molecole non può essere una misura diretta di “innovazione”, che dovrebbe tener conto soprattutto dei benefici clinici e della rilevanza per i pazienti garantiti dai nuovi farmaci. A questo punto sorge spontanea una domanda: esiste il rischio di immettere in commercio e ritrovare sul mercato farmaci meno sicuri per la salute delle persone?
Meglio gli esiti surrogati ai benefici clinici? Il parere di Rita Banzi
«Certamente», conferma Rita Banzi, responsabile del Centro di Politiche regolatorie in sanità dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri IRCCS di Milano. «Più si accorciano i tempi non tanto di revisione da parte degli enti regolatori, quanto di sviluppo dei farmaci, più questo rischio aumenta perché il cardine di questo processo di approvazione accelerato è di basarsi su dati in un certo senso ancora preliminari, cioè derivati da studi più brevi o con casistiche meno numerose, o addirittura su effetti cosiddetti “surrogati” di malattia, ovvero i “possibili” esiti clinici del farmaco sul paziente ma non i suoi reali effetti e benefici clinici. Accorciando questa fase di sviluppo si raccolgono meno informazioni anche sulla loro sicurezza, in quanto i seppur rari effetti collaterali e/o tossici si possono vedere soltanto con una lunga osservazione».
La disponibilità di farmaci con efficacia molto limitata o nessuna efficacia
Quindi, la maggior parte dei farmaci nuovi che vengono approvati hanno un debito di informazioni sulla sicurezza, tanto grande quanto più corta è stata la fase di sviluppo e la raccolta di dati prima dell’approvazione. C’è un altro rischio però, a volte sottovalutato, aggiunge la farmacologa: «La disponibilità di farmaci che non sono neppure efficaci o, comunque, hanno un’efficacia molto limitata. Che senso ha, allora, disporre di queste sostanze terapeutiche in commercio pur senza un’efficacia comprovata, che una volta approvate diventerebbe complicato ritirare dal mercato?».
Verso una strada sempre più incerta
Non tutta la colpa va addossata agli enti regolatori, tuttavia, che devono trovare un punto di convergenza tra proporre farmaci potenzialmente utili in tempi brevi per la cura delle patologie più gravi e orfane di trattamenti e correre il rischio di approvare farmaci poco efficaci se non addirittura poco sicuri per l’uso clinico. «Dipende da quanto siamo disposti ad accettare questo margine di incertezza – avverte Banzi – ma la tendenza di FDA ed EMA è quella di sbilanciarsi verso un’incertezza sempre maggiore».
Il divario tra l’ iter normativo e le priorità cliniche
Dunque, a sentire gli esperti, il divario tra l’iter normativo di nuovi medicinali e le priorità cliniche dei pazienti e di salute pubblica dei sistemi sanitari dopo la loro approvazione è destinata a crescere. C’è anche chi si adopera per promuovere l’integrazione dei dati ricavati dalla ricerca, seppur accelerata per varie esigenze, non solo di bottega, con quelli provenienti dall’utilizzo dei farmaci nella “vita reale” di tutti i giorni.
La sperimentazione clinica è insostituibile
«Nessun dubbio», spiega la ricercatrice del Mario Negri. «Si tratta di una risorsa da sfruttare al meglio per colmare le mancate informazioni sui trattamenti che utilizziamo. Che però tali fonti di dati possano sostituire uno sviluppo e una raccolta di informazioni scientifiche rigorosi per stabilire se un trattamento funziona o meno solleva delle perplessità. È vero che gli studi randomizzati controllati, attraverso cui passano i farmaci prima dell’approvazione, presentano dei limiti a causa del campione ridotto di pazienti sul quale vengono studiati rispetto ad una popolazione. Ma il loro vantaggio è di poter isolare l’effetto netto di un farmaco con un profilo di efficacia e sicurezza certo.
Condizione di Real Life
In condizioni di real life, invece, dobbiamo mettere in conto una serie di fattori “confondenti” difficili da superare: in questo caso abbiamo a che fare con dati osservazionali che, per quanto interessanti tanto da poter essere integrati nella storia anagrafica di un farmaco, sono molto meno robusti di una dato sperimentale ricavato da uno studio clinico tradizionale».
Prezzi da sballo non in linea con il valore terapeutico
Un’altra questione, tutt’altro che secondaria, sollevata dai farmaci approvati con procedura accelerata è quella economica, legata al rimborso di farmaci in teoria innovativi ma anche molto costosi, magari segnati dal peccato originale di non presentare prove robuste di reali benefici clinici a vantaggio del paziente. «Una narrazione, quella dei farmaci innovativi, che durante la negoziazione dei prezzi porta ad accettare l’equazione: prezzi esorbitanti – uguale – capacità di cambiare la storia della malattia o la prognosi del malato», sottolinea Banzi.
Ha senso pagare cifre esorbitanti per farmaci con benefici contenuti?
«Ma è sensato pagare cifre esorbitanti per farmaci che mostrano già in partenza benefici terapeutici contenuti? Più corretto sarebbe pagare relativamente poco tali farmaci in debito di sperimentazione e alzare la soglia del loro valore economico man mano si accresce il loro valore terapeutico nel corso della prassi clinica». L’obiettivo, insomma, dovrebbe essere sempre quello dell’equità e della sostenibilità sociale e non quello di mandare in fallimento i “payer” come il nostro sistema sanitario pubblico».
Il bonus di farmaco ad alto valore terapeutico
Resta un fatto innegabile: i medicinali approvati dagli enti regolatori attraverso processi accelerati hanno sempre di più la possibilità di guadagnare il bonus di “farmaco ad alto valore terapeutico” rispetto a chi, invece, è passato al vaglio di una sperimentazione seria e consapevole. Forse sta alle autorità nazionali e alle agenzie del farmaco di tutti i paesi informare medici e pazienti sui reali benefici e sugli eventuali rischi legati ai nuovi farmaci. «Sic transit gloria mundi», dicevano i latini.
Giorgio Cavazzini