Negli ultimi 20 anni sono stati numerosi e importanti i progressi nel trattamento dei malati oncologici, così da far diventare di uso comune termini quali profilo genomico, immunoterapia, terapie mirate e medicina di precisione. Uno degli approcci rivoluzionari nel campo della ricerca biomedica è l’utilizzo di nanoparticelle – metalliche, inorganiche, organiche e biologiche – a scopo terapeutico. La cosiddetta nanomedicina è oggi un campo interdisciplinare in crescita, che si occupa di come poter utilizzare le nanoparticelle per migliorare la salute umana con l’obiettivo di prevenire, diagnosticare e trattare le malattie a livello molecolare. 

Ma che cosa sono le nanoparticelle?

In pratica le nanoparticelle sono piccole molecole di dimensioni variabili da 1 nanometro |nm|, pari a 1/000.000 di mm, fino a 1 micrometro |μm|, pari a 1/1000 di mm. Per scopi biologici, tuttavia, le dimensioni variano in genere tra 10 e 800 nm. Scopo della nanomedicina, ad un livello più specifico, è lo sviluppo di nuovi agenti terapeutici e di imaging diagnostico caratterizzati da maggiore efficacia e sicurezza, e soprattutto minore tossicità. 

Dalla tradizione alla terapia del futuro

Il successo “parziale” dell’attuale terapia antitumorale, così com’è stata concepita, è spesso riconducibile a diversi fattori: mancata efficacia del farmaco, problemi di tossicità, acquisita resistenza agli antitumorali e scarsa solubilità in soluzioni acquose. L’utilizzo di nanoparticelle nella terapia dei tumori può migliorare significativamente l’esito clinico di questi pazienti grazie ai benefici che le contraddistinguono: dimensioni ridottissime, solubilità in acqua, migliore stabilità, maggiore biodisponibilità, ovvero la quantità e la velocità con cui il farmaco entra e permane nel circolo sanguigno, e migliori caratteristiche farmacogenetiche, cioè la risposta al farmaco in base all’assetto genetico del paziente. Quest’ultima è la strategia attraverso cui agiscono i farmaci biologici.

La sperimentazione sui macrofagi

Pertanto, la nanoncologia si muove in un campo ibrido tra biochimica, tecnologia ingegneristica e medicina con l’obiettivo di far progredire l’individuazione, la diagnosi e la terapia del tumore. Diverse sono le nanoparticelle prodotte per l’uso in nanoncologia che, una volta somministrate, avranno l’opportunità di interagire con diversi ambienti biologici, cellule, organi e tessuti prima di raggiungere il loro target specifico. 

Tra le più recenti sperimentazioni a questo riguardo si distinguono quelle sull’attivazione di particolari cellule tissutali del corpo, i macrofagi, che hanno il compito di inglobare al loro interno particelle estranee, come cellule neoplastiche, batteri e virus, distruggendoli. Oltre alla principale funzione di fagocitosi, queste cellule di difesa possono produrre anche sostanze, chiamate citochine, in grado di dare avvio al processo di infiammazione che caratterizza sia i meccanismi biochimici di difesa sia quelli di riparazione dei tessuti. 

La proteina “don’t-eat-me” CD47 

Che cosa c’entrano i macrofagi con le cellule tumorali? Facciamo un passo indietro. Tutte le cellule del nostro organismo, per esempio i globuli rossi, producono una proteina transmembrana, che attraversa più volte la membrana cellulare e viene codificata da un gene che gli scienziati hanno chiamato CD47. Attraverso questo marcatore “antigenico” le nostre cellule segnalano ai macrofagi di non attaccarle: in questo modo vengono riconosciute, ma non distrutte. Peccato che anche le cellule tumorali abbiano malignamente imparato a dotarsi delle suddette proteine, che gli anglosassoni hanno definito molecole “don’t-eat-me” ovvero “non mangiarmi”, in grado di ingannare i macrofagi che le riconoscono come cellule proprie e non come entità che hanno del tutto perso le caratteristiche di cellule “normali”, divenendo in un certo senso estranee all’organismo ospite nel quale continuano a moltiplicarsi fino a farlo soccombere. 

Nanoparticelle anche nella placca aterosclerotica

Una strategia cellulare intervenendo sulla quale, grazie alla nanoncologia, si potrebbe addirittura rivoluzionare il trattamento dei tumori, ma anche di altre patologie sistemiche letali. Ad averlo sicuramente capito è Bryan Smith, professore al Dipartimento di ingegneria biomedica dell’Università statale del Michigan, negli Stati Uniti, e direttore del Laboratorio di Nano-immuno-ingegneria traslazionale |T-NIE Lab|. Insieme al suo team di ricercatori, lo scienziato americano sta mettendo a punto una terapia di precisione con particelle nanoscopiche in grado di colpire le cellule neoplastiche della mammella, sfruttando la strategia millenaria che tutti abbiamo imparato a scuola dall’astuto Ulisse descritto da Omero: il cavallo di Troia. Un approccio già utilizzato dal bioingegnere per disgregare e ridurre le placche aterosclerotiche delle coronarie introducendo al loro interno, dov’è presente il marcatore CD47, delle nanoparticelle in grado di rilasciare una sostanza farmacologica capace di attivare i macrofagi e distruggere il materiale fibrotico che via via si accumula, fino ad ostruire il vaso arterioso e provocare un infarto cardiaco.

Primum eludere, deinde consumere

Sul versante, invece, oncologico Smith utilizzerebbe nanoparticelle di farmaco per raggiungere se possibile un doppio scopo: neutralizzare le proteine CD47 presenti sulle cellule tumorali della mammella e/o inattivare i recettori di superficie dei macrofagi capaci di riconoscere le proteine CD47 tumorali “ingannatrici”. L’obiettivo è sempre il medesimo: ingannare a sua volta la cellula tumorale e distruggerla attraverso il meccanismo naturale di fagocitosi. Con un vantaggio tutt’altro che indifferente: ridurre quasi del tutto o addirittura annullare gli inevitabili effetti collaterali associati alle classiche chemioterapie registrati dalle pazienti con tumore al seno. 

Una strategia innovativa che ha convinto i National Institutes of Health statunitensi, il nostro Servizio sanitario nazionale, a devolvere allo scienziato un grant di ben 2 milioni e mezzo di dollari per raggiungere il traguardo. Incrociamo tutti le dita.

Giorgio Cavazzini

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