Non ci sono promesse di vita. E neanche sono più promesse le terre per cui scarseggia l’energia per mettersi a cercarle. Del treno che raccoglie ogni dannato per salvarne almeno l’anima non si sente il fischio. In “Letter To You”, disco in studio numero 20 di Bruce Springsteen, galleggia un oceano di vivide memorie, intime nostalgie di un tempo-paradiso, abbandoni che strappano le viscere in un racconto rischiarato da una musica accarezzata da toccanti aperture. 

E-Street sound

C’è la E-Street Band al massimo della forma per rendere il suono un sorso d’aria pura. Chitarre spesse ma pulite, l’organo, Charlie Giordano, dolce e il piano, Roy Bittan, seducente. Alla batteria Max Weinberg dirige il timing come il suo soprannome, Mighty,  pretende, il sax di Jake Clemmons interviene con diligenza e Gary Tallent disegna le linee di basso con classe. L’intonazione di Bruce è potente o delicata e i cori di Stevie Van Zandt, Nils Lofgren e Patti Scialfa arricchiscono l’ascolto.

Musica che riprende la lucentezza del primo decennio di carriera di Springsteen. Quel viscerale rock sound che arrivò almeno fino a “The River” mediato dall’evoluzione del musicista quale compositore. 

Colloquio intimo

La narrazione di “Letter To You” segue il cammino delle origini, a partire dal crack iniziale di “Janey Needs A Shooter”, uno dei tre pezzi del suo canzoniere che, per quanto mai incisi, risalgono ai primi anni Settanta. Un evidente tributo all’attacco di “Like A Rolling Stone” di Bob Dylan, momento che, come sappiamo da sua stessa ammissione, sancì la decisione di Springsteen di diventare un rocker, mentre di rimandi al Dylan letterario ce ne sono almeno due, all’ascoltatore il compito di scovarli. 

Un percorso fatto dell’odore del tempo andato che risale su per le narici, di richiami ai fratelli partiti per un’altra dimensione che ritornano come spettri, di investigazioni private faccia a faccia con la morte perché il tempo che si ha davanti non è più la stagione delle fragole e delle ciliegie. E di un’immarcescibile volontà di continuare a essere degno del dono ricevuto settantuno anni fa.

Gli occhi dell’ infanzia

Perché se è vero, come scrisse John Ruskin, che gli unici paradisi sono quelli che abbiamo perduto, se è altrettanto vero che l’esuberanza se n’è andata con gli anni, Springsteen canta di una necessità di vita che non smette di sentire, un’accettazione della realtà in cui è immerso con piedi, cuore e cervello per non aver del tutto perduto gli occhi dell’infanzia. La perdita porta a uno stato di desolazione che si affaccia su vuoto e orrore, i fantasmi acuiscono il dolore per chi non può tornare, ma allo stesso tempo mica è peccato essere raggiunti da uno splendore improvviso. 

La Nera Mietitrice non vince

Le stelle possono svanire come pietra nel nero del cielo, le fotografie sbiadire anche dentro ad album chiusi da decenni, le lettere che si scrivono assomigliano a testamenti, si vive un tempo in cui zero è il numero e si contano ferite e cicatrici. Ma la morte non vince sempre. La morte può essere piccola cosa. Non è la fine. Per quanto ammaccati e col fiato grosso si procede fino alla beatitudine eterna dove la famiglia umana potrà incontrarsi di nuovo. E solo allora non saremo più orfani. No, la morte non vince. Lo dice il sangue.

Corrado Ori Tanzi

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