Dallo studio di una proteina umana ubiquitaria alla medicina rigenerativa
Nel 2019 ha vinto, in condivisione con Donald Kohan dell’Università di Salt Lake City, il prestigioso Tomoh Masaki Award per i suoi studi sull’endotelina. È segretario scientifico dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri IRCCS di Milano e coordinatore delle ricerche delle sedi di Bergamo e Ranica. Il suo nome, oltre a figurare ai primi posti tra i ricercatori più citati al mondo nella letteratura scientifica e tra le scienziate italiane con pubblicazioni ad alto impatto |h-index: 86|, è stato inserito nella banca dati online www.100esperte.it che raccoglie 100 referenze di esperte in scienze, tecnologia, ingegneria e matematica.
Ariela Benigni biologa e scienziata
Stiamo parlando di Ariela Benigni, biologa e scienziata a tempo pieno in uno dei campi più affascinanti, ma anche più impegnativi della ricerca di base: le cause di sviluppo delle malattie renali e i meccanismi fisiopatologici che conducono progressivamente il paziente alla perdita della funzione d’organo. Oggi, con il suo team di ricerca, si occupa anche di medicina rigenerativa, per capire come il rene sia capace di rigenerarsi e se le cellule staminali possono avere un ruolo nella guarigione delle malattie renali acute.
Dottoressa Benigni, da dove inizia la storia della vostra ricerca sul rene?
«Una volta si pensava che tutti i pazienti con malattia renale progredisse inesorabilmente verso la dialisi. Grazie anche ai nostri studi condotti nei centri del Mario Negri di Bergamo, abbiamo approfondito i meccanismi di danno renale e i mediatori chimici che lo modulano attraverso modelli di ricerca sperimentali prima animali poi sull’uomo fino ad ottenere una ricaduta sul piano terapeutico con trattamenti che vengono attualmente utilizzati in ambito clinico. In pratica abbiamo condotto quella che oggi viene definita – in molti casi con enfasi – un’attività “traslazionale”, che sottintende la collaborazione di più figure professionali quali nefrologi, biologi, farmacologi, medici e così via, inserite in diversi team di ricerca, con un obiettivo comune. Nel nostro caso la compromissione del rene».
Da queste premesse fuoriesce l’endotelina. Che cos’è e qual è il suo ruolo nella malattia renale?
«La scoperta dell’endotelina avviene negli anni Ottanta grazie al medico giapponese Tomoh Masaki durante il periodo di dottorato negli Stati Uniti. Si tratta della proteina umana con il più potente effetto noto di costrizione dei grandi e piccoli vasi arteriosi e venosi, con un ruolo importante sulla regolazione del flusso sanguigno renale, dell’emodinamica glomerulare, dell’equilibrio sia idroelettrolitico sia acido-base».
Quindi c’è una correlazione tra questa proteina e l’ipertensione arteriosa sistemica?
«Certamente. Molti studi presenti in letteratura hanno, infatti, dimostrato come l’uso di antagonisti dell’endotelina porti alla riduzione dei livelli di pressione arteriosa in pazienti con ipertensione definita “essenziale” che non rispondono ad altri farmaci. Ma l’ipertensione sistemica si traduce, in definitiva, anche in ipertensione renale sottoponendo vasi e organo ad un autentico stress meccanico in grado con il tempo di minarlo. Approfondire il ruolo di questa proteina da parte nostra ha rivelato come, nella malattia renale progressiva, si possa osservare un aumento della produzione di endotelina da parte delle cellule del rene con alterazione dei meccanismi di filtrazione glomerulare e riassorbimento tubulare e perdita di proteine attraverso le urine. La proteinuria è un marcatore importante di danno renale. La sovrapproduzione di endotelina ha poi una ricaduta negativa a livello locale con effetti proinfiammatori, aumento dei livelli di radicali dell’ossigeno e così via».
Che interazione c’è, se esiste, tra l’endotelina e un altro sistema cruciale per le salute del rene: il sistema renina-angiotensina?
«L’angiotensina è un altro importante mediatore chimico in grado di dialogare con l’endotelina: se i livelli di quest’ultima aumentano a causa di un danno, si elevano anche quelli di angiotensina. Un meccanismo di potenziamento sinergico che ci ha convinto a intraprendere la decisione di provare ad inibire farmacologicamente entrambe, per esempio nei pazienti con diabete mellito e compromissione della funzione renale. Se per controllare l’ipertensione renale nella sola malattia diabetica è sufficiente inibire la produzione di angiotensina con farmaci Ace-inibitori, in presenza di una concomitante nefropatia è necessario somministrare anche un inibitore dell’endotelina per rallentare il decadimento progressivo della funzione renale».
Peraltro, l’ iperglicemia stessa caratteristica del diabete mellito è un fattore di rischio di compromissione renale.
«Nella nostra review, pubblicata all’inizio di quest’anno su “Pediatric Nephrology“, viene evidenziato come la nefropatia diabetica rappresenti la complicanza più devastante del diabete tipo 2 a causa dell’aumento di endotelina renale indotta dall’iperglicemia, con progressivo danno glomerulare e fibrosi renale. Contrastarla si può con farmaci antagonisti dell’endotelina, come hanno ben dimostrato negli ultimi 20 anni studi clinici quali SONAR e CREDENCE sulla protezione renale nei pazienti affetti da diabete e nefropatia cronica grave. Ma quello che abbiamo scoperto è che questi farmaci utilizzati per bloccare la produzione di endotelina e angiotensina, oltre a ridurre l’ipertensione renale, la proteinuria e l’infiammazione, possono giocare un ruolo cruciale nella protezione del rene stimolando le cellule staminali renali».
Un altro capitolo importante della protezione renale è l’utilizzo delle gliflozine.
«Gli inibitori del cotrasportatore sodio-glucosio |SGLT2|, ovvero le gliflozine, rappresentano l’ultima frontiera terapeutica per contrastare la nefropatia diabetica. Questi farmaci, che impediscono il riassorbimento di glucosio e sodio a livello dei tubuli renali prossimali indotto anche dai farmaci antagonisti dell’endotelina, riescono ad esplicare il loro effetto protettivo nei confronti del rene non solo da un punto di vista emodinamico, ma anche attraverso un’azione diretta sulle cellule del filtro glomerulare: i podociti, Cellule che hanno l’importante compito di preservare l’integrità del filtro renale e che grazie agli SGLT2-inibitori vengono preservate invece di andare distrutte dalla malattia renale».
Voi del Mario Negri siete riusciti per primi ad isolare nel glomerulo renale il virus responsabile della pandemia in corso. A questo punto perché il Covid-19 non dovrebbe interessare anche i nefrologi?
«Quello cui lei fa riferimento è un nostro studio pubblicato su Nephron lo scorso marzo, in pieno picco pandemico, dal titolo un po’ provocatorio. Allora del virus Sars-CoV-2 si sapeva poco o nulla, mentre oggi è ormai certo che il nuovo Coronavirus non colpisca solo il polmone ma anche altri organi vitali come il rene. Lo dimostra il fatto che il 30-40% dei pazienti ricoverati in reparti di rianimazione soffrano di insufficienza renale con evidenti alterazioni d’organo, proteinuria, ematuria e necessità di entrare in dialisi. La domanda che ci siamo posti è se si trattava di un’azione diretta del virus o di un’azione secondaria al problema respiratorio polmonare. Lo studio microscopico dei campioni autoptici rimossi dalle vittime del Covid-19 ha così rivelato la presenza di particelle virali a livello del filtro glomerulare renale, dove ad essere direttamente danneggiate dall’agente patogeno sono proprio le sue cellule – i podociti – sottomesse all’urgenza della replicazione virale fino a morirne. Un fenomeno cellulare che la biologia ha definito con il termine di “apoptosi”».
Che ruolo hanno in tutto questo i recettori di membrana ACE-2?
«Come hanno ormai diffuso i media la porta di ingresso del virus nell’organismo è proprio il recettore ACE-2, che nel rene è presente in numero elevato. Paradossalmente lo stesso recettore è anche in grado di modulare l’ipertensione arteriosa attraverso l’angiotensina. Ora nel sesso femminile l’espressione renale di questo recettore è molto alta, per la doppia presenza del gene che lo codifica nei 2 cromosomi X, predisponendo teoricamente le donne ad essere più attaccate dal virus. Per fortuna così non è, forse perché ad essere coinvolti nella modulazione della sua espressione a livello renale sono gli ormoni sessuali o a causa di un meccanismo di inattivazione da parte del cromosoma X, o altro. Un fenomeno che stiamo ancora approfondendo alla ricerca di una risposta definitiva, spinti anche dall’ipotesi apparentemente controversa sollevata da altri ricercatori secondo cui la maggiore vulnerabilità al Covid-19 della popolazione anziana sarebbe associata in realtà alla riduzione generale di questi recettori nell’organismo. Purtroppo, il meccanismo è alquanto complesso e dipende dal contributo anche di altri mediatori recettoriali.
Che cosa si aspetta in questi tempi di distanziamento sociale?
La mia speranza è che la ricerca abbia da parte di tutti la stessa attenzione e considerazione che ha ricevuto durante la pandemia anche in futuro. Al di là del nostro lavoro che è anche passione, è importante che le persone che in questo momento sperimentano disagi e soffrono, siano pure consapevoli dell’importanza della ricerca – in particolare quella indipendente come nel nostro Istituto – per il futuro del Paese.
Spes ultima dea, la speranza è l’ultima a morire, dicevano i latini.
Giorgio Cavazzini