Il lockdown dello scorso mese di marzo, causato dall’emergenza Covid, ha messo KO molti malati portatori di patologie diverse dall’infezione virale, che non hanno potuto accedere ai servizi di continuità territoriale per potersi curare. Pazienti oncologici, malati reumatici o con patologie metaboliche hanno dovuto rinunciare ai controlli periodici di routine necessari per fare il punto sul loro stato di salute.
Saltano le visite per la paura del contagio
«Una tragedia nella tragedia che ha visto, per esempio, un crollo dell’86% delle visite specialistiche nei pazienti con diabete», avverte Paolo di Bartolo, presidente dell’ Associazione medici diabetologi (AMD), intervenuto ieri alla conferenza istituzionale della Camera dei Deputati per la Giornata mondiale del diabete 2020. «Considerando che questi sono i pazienti più esposti ad esiti sfavorevoli in caso di contagio da Sars-CoV-2, dopo questo “terremoto” potremmo trovarci ad affrontare un vero e proprio Tsunami».
«Non per nulla – sottolinea la senatrice Daniela Sbrollini, co-presidente dell’ Intergruppo parlamentare “Obesità e Diabete” – il 30% dei decessi da Covid-19 è avvenuto proprio tra i pazienti con diabete».
I ragazzi con diabete tipo 1 “in transizione”
Ma tra le persone che soffrono di diabete c’è una categoria di pazienti ancora più fragile: quella dei ragazzi con diabete tipo 1 |DT1| nella fase di passaggio dal pediatra di famiglia al medico specialista, cioè il diabetologo. Un problema certamente acuito dall’emergenza Covid, che ha di fatto aumentato quel senso di “abbandono” già accusato dai ragazzi con il cambio del medico di riferimento, amplificato dalle ridotte possibilità di vedere in presenza il nuovo specialista. È quanto emerge dall’indagine condotta da Doxa Pharma, con il contributo non condizionato di Sanofi, presentata sempre ieri nella conferenza stampa virtuale “Non mandare il diabete in lockdown”, a pochi giorni dalla Giornata mondiale per il diabete 2020 attesa il prossimo 14 novembre.
Cruciale il servizio reso dalla telematica
In generale, per il 56% degli intervistati la gestione della patologia è risultata più complicata del solito soprattutto a causa della sospensione delle visite frontali con il proprio medico, ma anche per la rinuncia ai controlli da parte degli stessi pazienti a causa del Covid, con il risultato che il 54% di loro ha registrato evidenti disagi durante la pandemia. Un problema in parte alleviato, per fortuna, dalla tecnologia: infatti, nel 30% dei casi le visite sono state effettuate telefonicamente od online tramite teleconsulto. Fondamentale, per esempio, si è rivelato l’invio dei dati glicemici allo specialista attraverso sistemi di monitoraggio continuo del glucosio da remoto nel 35% dei casi, Whatsapp o sms nel 21%, telemedicina nel 23%, app per la gestione del diabete nel 12%; nonché il supporto educazionale a distanza nel 31%, così come il supporto attraverso i social media e le web community nel 6% dei casi.
Lo scoglio dell’accettazione della malattia
Ben 8 pazienti su 10 a considerano il diabete tipo 1 una patologia estremamente limitante per la propria vita, tanto che 1 paziente su 2 dichiara di non aver mai completamente accettato la patologia. Una quota che aumenta in maniera esponenziale fino a toccare il 60% dei pazienti che dall’età pediatrica si trovano in quella fase di transizione in cui sono seguiti, nel migliore dei casi, in maniera congiunta sia dal pediatra sia dal diabetologo.
Un periodo, quello della transizione, particolarmente delicato ed estremamente complesso: i pazienti in età pediatrica si trovano “catapultati” in una situazione che richiede il monitoraggio costante dello stato di salute e dei livelli di glicemia anche 2-3 volte al giorno e, per 5 pazienti su 10, diventa necessario il ricovero ospedaliero per le complicanze dovute all’ipoglicemia.
Claudio Maffeis, per l’adolescente può diventare devastante
«L’impatto del diabete tipo 1 – spiega Claudio Maffeis, direttore dell’ Unità operativa complessa di Pediatria ad indirizzo diabetologico e Malattie del metabolismo dell’Azienda ospedaliera universitaria integrata Ospedale della Donna e del Bambino di Verona, nonché presidente della Società italiana di endocrinologia e diabetologia pediatrica |SIEDP| – sulla qualità di vita dei pazienti e sulle loro famiglie è notevole, soprattutto nei bambini. Nell’adolescente dai 12 ai 16 anni può diventare addirittura “devastante”: accettare la malattia significa accettare tutto quello che è necessario fare per curarla. Per questo è fondamentale educare e accompagnare il bambino e la famiglia cercando di considerare la complessità che ciò comporta, la sfera sociale che ruota intorno a loro: scuola, attività ludiche e sportive.
«Grazie alle nuove tecnologie – continua il pediatra veronese – a nuovi strumenti terapeutici come la nuova insulina basale di seconda generazione che sarà disponibile anche per la pediatria e ad approcci sempre più tesi alla multidisciplinarietà, abbiamo la possibilità di gestire il contatto tra paziente, famiglia ed équipe di cura che si avvale di un interscambio costante. Una condizione indispensabile per migliorare sempre più l’adesione alla terapia e l’esito clinico, oltre che la qualità di vita del paziente e della sua famiglia».
Emanuele Bosi, importante scongiurare il senso di abbandono
Il diabete di tipo 1 si sviluppa in genere durante gli anni dell’adolescenza, ma può comparire anche in bambini piccolissimi o in giovani adulti per durare tutta la vita.
«Il passaggio dalla pediatria all’ambulatorio dell’adulto – avverte Emanuele Bosi, primario dell’Unità di Medicina generale ad indirizzo diabetologico ed endocrino-metabolico all’ IRCCS Ospedale San Raffaele e professore ordinario di Medicina interna all’ Università Vita-Salute San Raffaele di Milano – è sempre un momento critico per i pazienti e dev’essere fatto in maniera graduale. Se da un lato i bambini e gli adolescenti vengono accompagnati per mano durante la prima fase della loro vita, il passaggio all’ambulatorio dell’adulto può generare smarrimento e inquietudine. Per questo è fondamentale che a riceverli in questo nuovo percorso sia un medico con competenze specifiche proprio sul diabete tipo 1».
È importante, aggiunge l’esperto, trovare la modalità corretta per effettuare un vero e proprio passaggio di consegne tra pediatra e diabetologo proprio per scongiurare quella sensazione di abbandono nella quale talvolta i pazienti si trovano catapultati.
Si può prevenire il diabete tipo 1 con lo screening di massa?
Abbiamo chiesto al professor Bosi se, alla luce di nuove evidenze e recenti sperimentazioni nel campo della prevenzione, non sia possibile intercettare i primissimi segnali di diabete prima che la malattia faccia il suo corso e si manifesti in tutta la sua drammaticità. Magari attraverso lo screening di massa per la rilevazione della glicemia in modo da cogliere gli episodi più precoci di disglicemia nel giovane con T1D o la misurazione degli autoanticorpi nella popolazione scolastica, come hanno fatto le autorità sanitarie in Baviera, con l’obiettivo di far emergere i bambini ad altissimo rischio di sviluppare T1D e attuare subito i provvedimenti del caso.
«Quello dello screening per la diagnosi precoce di diabete o addirittura per la sua predizione – spiega il clinico milanese – è l’argomento che personalmente mi appassiona e mi impegna di più. A differenza del diabete tipo 2, dove grazie alla rilevazione dell’alterazione glicemica a digiuno si può individuare una finestra di intervento utile a prevenire l’evoluzione verso la malattia conclamata, nel DT1 e in particolare nella popolazione infantile lo screening della glicemia non è utile in quanto non potrebbe che rilevare la fase finale della patologia. In questi soggetti, infatti, i livelli di glucosio nel sangue si presentano normali fino al momento in cui la situazione precipita nel giro di poche settimane.
Screening
«Lo strumento oggi più adeguato per fare uno screening in tal senso è rappresentato dagli autoanticorpi contro le cellule delle isole pancreatiche che producono l’insulina. Nello studio FRIDA del Centro di ricerca germanico per la salute ambientale, l’ Helmholtz Zentrum München, i colleghi tedeschi hanno condotto con molto coraggio uno screening sulla popolazione infantile generale per la ricerca di autoanticorpi associati a DT1, che ha permesso loro di far emergere lo 0,3% di giovani positivi. Che sono poi quelli più a rischio di sviluppare diabete tipo 1.
«In questo modo si potrebbe intervenire sulla popolazione in oggetto con finalità di prevenzione, nonostante si debba sottolineare come ad oggi gli strumenti per raggiungere tale obiettivo non esistano e che, per ora, tale attività appartiene al mondo della ricerca. Inoltre, realizzare screening di questa portata nel nostro Paese non è facile per le difficoltà soprattutto culturali. Quelli che si oppongono maggiormente sono proprio i medici, che ritengono inutile fare uno screening di questo tipo in mancanza di strumenti di prevenzione efficaci. Ma noi stiamo comunque percorrendo questa strada, lanciando per esempio alcuni studi pilota sul modello in realizzazione ormai da un paio di anni in Germania, dove sono stati “screenati” decine di migliaia di ragazzi attraverso i pediatri di famiglia. Prima o poi si riuscirà a farlo anche in Italia e noi ci stiamo impegnando».
“The Lancet“, più che una pandemia questa è una “sindemia”
Ma come faranno le persone con diabete, in particolare la popolazione di giovani con DT1, – ma non solo – e tutti gli operatori sanitari che se ne occupano ad uscire indenni dall’ondata pandemica o meglio dallo Tsunami che li ha travolti?
Una risposta, suggerisce il presidente della Società italiana di diabetologia |SID| Agostino Consoli nel suo intervento alla conferenza stampa istituzionale della Camera dei Deputati, potrebbe giungere da un diverso approccio alla lotta contro il nuovo coronavirus. Un approccio definito “sindemico”, come l’ha definito l’antropologo medico americano Merrill Singer su “The Lancet” nel 2017, che negli anni ’90 ha concepito per la prima volta la nozione di “sindemia”, attraverso il quale far emergere le interazioni sociali per affrontare nella maniera più efficace la politica sanitaria. Nel nostro caso contro il Covid-19.
Diabete, cancro, malattie cardiovascolari e malattie respiratorie croniche
In pratica, in contesti caratterizzati da povertà diffusa le malattie non trasmissibili (MNT), quali diabete, cancro, malattie cardiovascolari e malattie respiratorie croniche, sono un nemico da considerare nella lotta al coronavirus. Limitare il danno causato da Sars-CoV-2 richiederebbe un’attenzione maggiore alle MNT e alle disuguaglianze socioeconomiche, perché le sindemie non semplicemente delle comorbilità ovvero la coesistenza di più patologie diverse in uno stesso individuo, ma sono caratterizzate da interazioni biologiche e sociali che aumentano la suscettibilità di una persona a peggiorare il proprio stato di salute.
“attaccare” le MNT
Nel caso di Covid-19, “attaccare” le MNT dovrebbe essere un prerequisito per contenere la curva di contagio, soprattutto considerando che il numero totale di persone che convivono con malattie croniche è in crescita. Affrontare il virus, dunque significa affrontare anche ipertensione, obesità, diabete, malattie cardiovascolari o respiratorie croniche e cancro. Malattie non trasmissibili che, per un miliardo di persone tra le più povere al mondo, oggi rappresentano oltre un terzo del numero totale di malattie.
Insomma, serve una veduta di più ampio respiro su quello che accade a tutti noi dal punto di vista della salute. «Ma soprattutto non è più ammissibile – avverte Stefano Nervo, presidente di Diabete Italia – quello che oggi accade ai bambini con diabete tipo 1, che giungono nel Pronto soccorso di alcuni ospedali del territorio nazionale e si sentono dire dagli operatori sanitari: prima di tutto bisogna fare la curva glicemica!».
“Agghiacciante”, direbbe Antonio Conte-alias Maurizio Crozza.
Giorgio Cavazzini