Che il cervello sia l’organo deputato a tenere sotto controllo una macchina biologica decisamente complessa come il nostro corpo, gestendo continuamente h24 miliardi di impulsi nervosi in entrata e in uscita, ormai l’abbiamo imparato tutti. Ma il fatto che rappresenti anche il distretto anatomico che, dal punto di vista metabolico, consuma ossigeno a gogo – e stiamo parlando di una cifra ragguardevole che rasenta il 20% del fabbisogno corporeo totale – è alquanto sorprendente. E, se posso aggiungere, anche un pochino sinistro all’idea di cosa potrebbe succedere a causa di una seppur impercettibile variazione della concentrazione di ossigeno cerebrale.
Un organo tanto potente quanto fragile
Il cerebellum, come lo chiamavano i latini, può subire diversi danni in condizioni di ipossia ovvero di bassi livelli di ossigeno, come si osserva in numerose malattie. Per esempio, l’ictus o stroke come viene chiamato nei paesi anglofoni, è un evento cerebrovascolare che si verifica quando il flusso sanguigno al cervello viene interrotto e rappresenta una delle principali cause di morte e disabilità nelle società più avanzate di tutto il mondo. Altro esempio sono i neonati prematuri, che spesso presentano un sistema respiratorio così immaturo da non consentire una sufficiente fornitura di sangue ossigenato al loro cervello ancora in via di sviluppo, con il rischio con il rischio di procurare lesioni tali da indurre deficit motori e cognitivi. Infine, in un clamoroso bagno di attualità, non possiamo eludere i sintomi da distress respiratorio registrati dai pazienti con infezione da COVID-19 grave, responsabili della riduzione dei i livelli di ossigeno cerebrale fino a causare danni irreversibili al nostro prezioso super-chip.
Due scienziati con il pallino della medicina rigenerativa
Comprendere come le cellule cerebrali possano rispondere a bassi livelli di ossigeno ematico, nel tentativo di evitare una catastrofe cellulare per un organismo intero, è il dilemma che ha fatto trascorrere notti insonni a due scienziati del calibro di Paul Tesar, professore di Terapia innovativa al Dipartimento di Genetica e Scienze del genoma della Case Western Reserve University School of Medicine di Cleveland in Ohio, e dell’esperto di neuroscienze e medicina rigenerativa Kevin Allan proveniente dallo stesso ateneo. Paul ha fondato anche il laboratorio che porta il suo nome dove ha sperimentato nuovi approcci rigenerativi per il trattamento di patologie quali sclerosi multipla, neuromielite ottica, leucodistrofie pediatriche, paralisi cerebrale e tumori cerebrali, causate da un’alterazione della mielina che avvolge le fibre nervose.
Le staminali che albergano dentro di noi
Dunque, sapendo che il nostro corpo è dotato di popolazioni di cellule staminali in grado di rigenerare i tessuti danneggiati dalle lesioni, i due scienziati hanno scoperto che proprio le cellule produttrici di mielina sono molto suscettibili ai danni causati da una bassa concentrazione di ossigeno nel sangue. Un’evidenza che ha spinto Allan, con l’aiuto di altri ricercatori americani, a condurre uno studio sperimentale con l’obiettivo di mettere in luce come queste cellule rispondano a bassi livelli di ossigeno ematico dando risposta così a una miriade di di domande sull’origine di tante malattie neurologiche. Lo studio è stato pubblicato quest’anno sulla rivista “Cell Stem Cell“.
I danni nervosi causati dall’ipossia cronica
Ritornando alla questio iniziale, come fa il nostro corpo a percepire e a rispondere alle fluttuazioni dei livelli di ossigeno necessari a mantenere l’omeostasi in ogni cellula dell’organismo, ossia in condizioni di equilibrio?
Concentrazioni insufficienti di ossigeno molecolare innescano rapidamente una risposta “trascrizionale evolutiva”, conservata nei nostri geni, che consente alle cellule di sopravvivere in condizioni di ipossia attraverso il metabolismo anaerobico per la produzione di energia, cioè quel meccanismo che ci consentiva – da giovani – per una manciata di secondi di correre i 100 m piani alla Mennea senza inalare una benché minima boccata di ossigeno.
L’ Angiogenesi e l’ eritropoiesi
Purtroppo, tutto questo da solo non è sufficiente, perché i geni devono darsi da fare anche per stimolare la creazione ex novo di nuovi vasi sanguigni |angiogenesi| e di globuli rossi del sangue |eritropoiesi| per aumentare l’accesso e il trasporto di ossigeno locale laddove c’è bisogno. Una risposta che all’inizio è sicuramente protettiva, ma la cui attivazione prolungata nel tempo conduce progressivamente a disfunzioni cellulari e a malattie in molti tessuti. Per fare un esempio, la risposta all’ipossia cronica blocca la formazione di materia bianca cerebrale nei bambini nati prematuramente, promuove l’infiammazione e la resistenza all’insulina nelle persone obese e compromette la capacità di trapiantare cellule staminali del sangue.
Un meccanismo cellulare che ha ricevuto il Nobel 2019 per la Medicina
Un meccanismo comune a tutti i mammiferi che dipende, più specificamente, dalla produzione costante e dall’accumulo da parte di tutte le cellule del corpo di proteine chiamate fattori inducibili dall’ipossia (HIF), la cui rapida degradazione avviene in presenza di ossigeno. In condizioni di ipossia o di livelli limitati di ossigeno questo meccanismo di degradazione viene interrotto, consentendo agli HIF di accumularsi e attivare programmi conservativi per migliorare la sopravvivenza cellulare e l’accesso all’ossigeno dei tessuti. La scoperta di questo meccanismo ha consegnato a Bill Kaelin, Gregg Semeza e Peter Ratcliffe il Premio Nobel 2019 per la Medicina.
Quindi, le proteine HIF si possono considerare come potenti primi soccorritori che corrono in aiuto delle cellule sofferenti per mancanza di ossigeno per cercare di mantenerle in vita il più a lungo possibile. Ma l’ipossia alla fine risulta dannosa per la funzione cellulare stessa.
Una risposta cellulare conservativa biunivoca
Mettendo a confronto i meccanismi attraverso cui le nostre cellule staminali cerebrali rispondono agli HIF con altri tessuti, gli scienziati hanno scoperto che tutti i tipi di tessuto, oltre a mostrare una risposta conservativa condivisa per consentire alle cellule di adattarsi ad un ambiente povero di ossigeno, ne mostrano una seconda che dipende dall’identità specifica del tessuto. In altre parole, le cellule staminali cerebrali e quelle cardiache sembrava esprimere una seconda risposta tessuto-specifica in grado di compromettere la funzione delle cellule staminali cerebrali. Quindi, non solo le cellule sono in grado di rispondere in modi diversi a bassi livelli di ossigeno in base alla loro identità, ma questa risposta tessuto-specifica è anche in grado di danneggiare la funzione cellulare.
Nuovi farmaci per ripristinate le staminali lese dall’ipossia
Sul filo di questo ragionamento, i ricercatori USA hanno effettuato uno screening farmacologico per scoprire potenziali composti in grado di ripristinare la funzione delle cellule staminali cerebrali dai danni subiti dall’ipossia. Da questo lavoro è stata isolata una classe di sostanze capaci di salvare la funzione cellulare senza influire sull’attività benefica di queste proteine HIF che rispondono a bassi livelli di ossigeno interpretando alla fine un doppio ruolo: quello dell’eroe salvavita e quello del cattivo che rovina tutto. Da qui emerge la necessità di mettere a punto farmaci selettivi contro danni cellulari specifici lasciando intatte le funzioni benefiche dell’HIF, massimizzando in questo modo la probabilità di ripristinare la funzione cellulare di diversi tessuti.
«In definitiva – spiega Kevin, principale autore della sperimentazione – vorremmo identificare nuovi farmaci in grado di prevenire il lato “oscuro” della risposta all’ipossia e promuovono la rigenerazione del tessuto cerebrale». “Ça va sans dire”, declamava lo Spietato.
Giorgio Cavazzini
Immagini ©Cell Stem Cell. (in press) doi