Il suo regno è il pianoforte. Suonato, insegnato, tela bianca da cui estrarre nuove melodie, armonie e improvvisazioni. Lo scoprì a nove anni e, dopo tanto studio con Maestri come Mario Demolli e Franco D’Andrea, ora che ha da poco scavalcato i sessanta continua a chiedere agli 88 tasti di raggiungerlo con il loro mistero sonoro. Il jazz è la casa, che Alessandro Bianchi mette in rima con libertà. Registrazioni in studio, session, concerti con una lista di musicisti in giro per il mondo di primissimo piano (pescando a caso: Walter Calloni, Stefano Cerri, Ferdinando Faraò, Maxx Furian, Tiziana Ghiglioni, Hilaria Kramer, Veronique Muller, Gabor Leskò fino alla sublime voce di Rosalynn Robinson). Infine il ruolo di cattedratico, che prima lo ha visto al CPM e da qualche anno alla svizzera Smart Academy, dove insegna armonia, improvvisazione e, ça va sans dire, pianoforte. 

Nella musica classica ho scoperto che una gran parte di musicisti è convinta che nel proprio strumenti si celi l’autentica voce umana che quest’arte può esprimere. Una vera ossessione da parte loro. Un’abitudine che vive anche nel jazz?

Tutta la musica in ultima analisi trova origine nel canto e la voce resta sicuramente, con tutti i limiti e le fragilità che la caratterizzano, lo strumento più espressivo. La ricerca del suono “bello” su qualsiasi strumento va quindi necessariamente in quella direzione. Anche nel jazz e forse a maggior ragione nel jazz, una ricerca in tal senso acquisisce un grande significato, intendendo per canto ogni forma di espressione vocale possibile.

Come pianista, ritiene che sia il pianoforte a esprimere la voce umana della musica?

Il pianoforte è uno strumento a corde, a percussione, meccanico e per natura polifonico, tutte caratteristiche che lo allontanano molto dalla voce, ma con una tale quantità di possibili sfumature che permettono inequivocabilmente a un buon pianista di avvicinarsi molto al canto. Impossibile non considerare “canto” il fraseggio di determinati pianisti. Nel jazz ad esempio, uno per tutti, non posso non pensare a Keith Jarrett e al suo meraviglioso suono.

Trova che sia un modo americano di pensare e suonare il jazz e uno europeo?

Forse, in un certo periodo c’è stata una certa differenza di intenti soprattutto e risultati nei due continenti. Il jazz nasce comunque apolide e aldilà di alcuni cliché, che per altro ne contraddicono la natura stessa, è e sarà sempre una musica universale. Si può trovare del jazz in una big band swing così come in una orchestrina gitana. Non in Bach però come sostiene qualcuno, vi prego… 

E tra pubblico americano e pubblico europeo?

Non saprei ma non penso. Il jazz, quello vero intendo, quando lo si incontra lo si comprende e lo si ama o non lo si comprende o addirittura non lo si sopporta. Questo vale dovunque, sicuramente.

Questo genere è uscito dalla sua grande Era, durata dalle Big Band a Miles Davis. A che punto è arrivato nella contemporaneità la sua evoluzione?

Questa è una domanda alla quale non è semplice rispondere. Il jazz si evolve continuamente, vive della contemporaneità che permea e dalla quale è permeato, a volte certo tornando su se stesso ma in maniera sempre diversa, proprio perché rifugge per natura dalla storicizzazione che ne nega l’essenza. Ci vorrà come sempre del tempo per capire le cose. Del resto la contemporaneità nell’Arte è spesso nebulosa e indecifrabile, desta diffidenze e sospetti che si rivelano, a posteriori, a volte assolutamente motivati altre volte del tutto irragionevoli. Ma è sempre stato così. Oggi comunque si sente veramente di tutto e in questo momento storico la connotazione jazz, viene attribuita, anche in buona fede, a musica che con il jazz ha molto poco a che vedere.

Un mito del jazz è l’improvvisazione. Oggi mi pare si celebri un’autentica santificazione di questa modalità espressiva. Ma che cos’è veramente l’improvvisazione? Ha una cornice dentro la quale deve essere guidata o è libertà senza limiti?

In verità l’improvvisazione non è mai mancata in tutta la musica occidentale (il jazz è una musica occidentale) ed esiste da ben prima della nascita del Jazz. Tutti i compositori sono sempre stati e sono eccellenti improvvisatori. La musica scritta è stata, prima dell’avvento dei sistemi di registrazione, l’unica possibilità per “fissare” e diffondere la musica. Per questa ragione per lungo tempo si ha avuto l’impressione che scrittura e improvvisazione fossero in antitesi e che la prima avesse soverchiato la seconda. In realtà ogni vero interprete, anche il più classico, è in qualche modo e nei limiti del possibile naturalmente un improvvisatore. Per quanto riguarda l’improvvisazione vera e propria, la musica cioè effettivamente non scritta, valgono sicuramente le due situazioni: libertà senza limiti ed espressione libera all’interno di una forma o struttura armonica. Entrambe consentono comunque un grandissimo margine alla creatività.

Che valore ha nel suo mondo la partitura?

La partitura è la mappa, suonare è il viaggio. Ogni mappa come sappiamo può essere più o meno dettagliata e, infine, chi viaggia può decidere se seguire una determinata strada o trovarne di alternative. L’importante è viaggiare e arrivare a destinazione.

Lei è compositore, concertista e insegnante. In quali di questi ruoli si sente più a suo agio?

Compositore e concertista sono parole troppo importanti per me, mi capita di scrivere, soprattutto dei temi e suono purtroppo sempre più raramente, anche se è la cosa che amerei di più fare. L’insegnamento occupa la maggior parte del mio tempo lavorativo ed è fonte di autentica soddisfazione. Cercare di trasmettere la passione per la musica quindi spingere i più giovani all’ascolto, alla riflessione e all’approfondimento (niente nello studio della musica arriva troppo velocemente, nemmeno per i più fortunati) e sapere di riuscirci in qualche misura è una vera gioia.

Ha avuto modo di stare al fianco di una bellissima voce come quella di Rosalynn Robinson. Che esperienza è stata?

Rosalynn è una persona straordinaria e una artista vera, spontanea e naturale. Lavorare con lei è sempre stato molto stimolante e gratificante, ne sono orgoglioso. Stiamo fra l’altro preparando un nuovo lavoro.

Chi sono oggi i talenti più alti del jazz?

Non è semplice dirlo. Ci sono tanti musicisti anche molto giovani che suonano straordinariamente bene ma, anche forse per via della contemporaneità, non ho la sensazione che ci siano oggi degli “inventori”, delle figure del valore di Davis o Parker o Bill Evans… È molto banale affermarlo lo so e me ne vergogno ma è probabilmente così. Certo i talenti veri anche oggi esistono, così di getto direi Mehldau, Jarrett , Hancock parlando naturalmente di pianisti, non così giovani certo, Esperanza Spalding… molti altri di sicuro. C’entra poco con il Jazz ma mi piace citarlo perché è innegabilmente un vero talento, Jacob Collier.

Chi è il jazzista che più ha toccato le sue corde?

Voglio parlare ancora una volta solo di pianisti e amo ripetermi perché è davvero così, tutto il mio amore per Keith Jarrett, per Bill Evans e in qualche misura per Herbie Hancock.

Si siede sulla panca, davanti a lei ha gli 88 tasti bianchi e neri. Cosa accade in quella ora, ora e mezza?

Tutto dipende da dove sono! Se sono da solo amo studiare musica classica, un vero innamoramento di ritorno per me, Bach, Mozart, Beethoven, qualche romantico, fino a Tchaikovsky e Debussy. Non vado oltre, non ne sarei in grado. Amo poi naturalmente suonare improvvisando, su dei temi o del tutto liberamente. Quando sono davanti a un pubblico cerco di essere me stesso, di emozionarmi e trasmettere soprattutto le mie emozioni. La musica serve a questo in fondo.

Corrado Ori Tanzi

Alessandro Bianchi con R. Robinson
Alessandro Bianchi
Alessandro Bianchi
Rosalynn Robinson, Alessandro Bianchi e Pepe Ragonese
Alessandro Bianchi
Alessandro Bianchi
Alessandro Bianchi con R. Robinson Alessandro Bianchi Alessandro Bianchi Rosalynn Robinson, Alessandro Bianchi e Pepe Ragonese Alessandro Bianchi Alessandro Bianchi

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