Lo screening per il tumore del colon-retto, che ancora oggi rappresenta il secondo tumore più frequentemente diagnosticato e la seconda causa di morte per cancro in Italia ed Europa, è uno dei principali strumenti per identificare e rimuovere lesioni precancerose destinate a trasformarsi in neoplasie maligne e individuare tumori negli stadi più precoci di malattia in modo da assicurare i migliori risultati di cura. Secondo gli ultimi dati AIOM-AIRTUM 2020, a fronte di circa 44.000 diagnosi attese quest’anno nel nostro Paese, nella fascia di popolazione tra i 50 e i 69 anni, verranno mancare all’appello 21.600 italiani.
Un incremento dal 13%, media europea nel 2019, al 50% delle diagnosi di tumore al 1° stadio salverebbe almeno 130.000 vite l’anno con un risparmio per le economie nazionali di circa 3 miliardi di euro. Un problema di salute di portata planetaria sul quale l’Organizzazione mondiale della sanità sta schiacciando l’acceleratore e che non manca di tenere alta l’attenzione delle autorità sanitarie in molti Paesi avanzati.
Un’emergenza sanitaria che attraversa l’oceano
Come gli Stati Uniti, dove il mese scorso la Task Force dei servizi di prevenzione nazionale ha emanato una bozza di raccomandazione per lo screening del tumore del colon-retto con l’introduzione di alcune modifiche relative alla fascia di età compresa tra 50 e 75 anni. In pratica il servizio di prevenzione USA suggerisce alle autorità sanitarie di tutti gli Stati federali di abbassare a 45 anni al posto di 50 l’età iniziale dello screening, da estendere poi alla popolazione dai 76 agli 85 anni solo in casi selezionati. Vero è che negli Stati Uniti il cancro colorettale è la terza causa di morte per tumori, ma è altrettanto vero che un quarto della popolazione compresa nella fascia 50-75 non è mai stato sottoposto a screening con i numeri assoluti che ne derivano. A preoccupare le autorità sanitarie americane è, tuttavia, anche l’aumento di casi tra i giovani e negli adulti di etnia nera che presentano un rischio più elevato di cancro del colon-retto. Ne abbiamo parlato con l’epidemiologo Carlo Senore, dell’AOU Città della Salute e della Scienza di Torino che fa capo al Centro di Riferimento per l’Epidemiologia e la prevenzione oncologica |CPO| in Piemonte, presidente del Gruppo italiano screening colorettale (GISCoR).
Dottor Senore, le nuove raccomandazioni statunitensi sulla prevenzione del cancro colorettale possono avere un senso anche nei Paesi d’Europa?
Bisogna innanzitutto tenere in considerazione i dati su cui si basa questa nuova raccomandazione. Le analisi condotte sulla base dei trend dei registri tumori americani valutano lo scostamento percentuale della frequenza di nuove diagnosi |incidenza| rispetto ai dati osservati nella coorte di popolazione che negli ultimi 30 anni ha registrato il picco di incidenza più basso. Da allora, stiamo parlando di circa 30 anni fa, l’incidenza dei tumori nelle fasce d’età più giovani è effettivamente aumentata, ma tradotto in numeri assoluti questo aumento è pari a 3-4 casi su 100,000, con un impatto quindi contenuto. La stessa analisi condotta sui registri tumori europei ha evidenziato un certo aumento di casi tra le fasce di popolazione più giovani nei Paesi del Nord Europa, a differenza che in Italia dove la mancanza di variazioni significative sotto i 50 anni non giustificherebbe l’introduzione di quelle indicazioni che negli Stati Uniti sono state invece raccomandate, seppur con resistenze tra i gastroenterologi e gli operatori di sanità pubblica, contrari ad un approccio preventivo che prevede l’investimento di risorse consistenti su un gruppo di popolazione in cui l’incidenza del tumore resta comunque bassa, a fronte di una quota consistente di popolazione tra i 50 e i 74 anni che tuttora non è coperta dallo screening, grazie al quale potrebbe trarre benefici in termini di salute.
La differente filosofia americana dell’assistenza sanitaria
Un meccanismo che riflette un po’ la logica del sistema americano, che fornisce indicazioni sui potenziali effetti protettivi dello screening senza tener conto della sostenibilità delle indicazioni proposte e della possibilità di coprire il più ampiamente possibile la popolazione. Diversamente, in Italia l’obiettivo delle autorità sanitarie è garantire la massima copertura dello screening a tutte le persone che ne possono ottenere un grande beneficio nella fascia d’età 50-69 o 50-75 in alcune regioni, senza investire ulteriori risorse in altri gruppi di popolazione che ne possono ottenere un beneficio minore, ammesso che ci sia. Una differenza sostanziale, quella tra l’Italia e gli Stati Uniti, di raccomandazioni e in definitiva di filosofia in termini di sanità pubblica.
L’invito del Consiglio europeo dei ministri della salute a raggiungere il 65% di adesione allo screening vede tra gli stati membri dei paesi più virtuosi di altri?
Sicuramente i Paesi Bassi con un’adesione intorno al 70-73%, nonostante lo screening sia indirizzato solo ai cittadini over 55, e i Paesi Baschi in Spagna dove si raggiunge il 75% della partecipazione e il 92% di adesione alla colonscopia tra i pazienti con risultato positivo al test. La partecipazione in Slovenia del 62% della popolazione target ha visto la diagnosi del 48% di cancro del colon-retto al 1° stadio. In molti paesi lo screening è su base regionale, e si osservano variazioni importanti tra le diverse aree, come in Italia dove in Veneto e Valle d’Aosta si raggiunge un’adesione del 65% a differenza di altre regioni dove è molto più bassa.
Ci sono paesi come la Francia, che pur invitando la totalità della popolazione raccoglie solo il 22-25% di partecipazione. Un fenomeno legato in parte alla metodologia del test, che vedeva in passato l’utilizzazione del guaiaco sostituito da qualche anno con un test immunochimico che ha un’adesione più alta, e in parte all’organizzazione che vede coinvolto il medico di famiglia, che ha un ruolo fondamentale nella promozione dello screening ma non può avere lui stesso il ruolo di distribuire il kit per la raccolta del campione di feci da testare. È molto più efficiente distribuirlo attraverso le farmacie o addirittura inviarlo per posta, strategia quest’ultima in grado di garantire – secondo alcune indagini francesi – un aumento dell’adesione da parte della popolazione pari al 20-30%.
Dai i numeri della statistica europea si rileva un incongruenza tra l’adesione allo screening e il successivo approfondimento strumentale in caso di risultato positivo al test. Ma davvero ci sono pazienti che evitano la colonscopia?
Questa è una delle criticità importanti dei programmi di screening che utilizzano il test per la ricerca del sangue occulto fecale. I dati dell’Osservatorio nazionale screening mostrano una ampia variabilità tra le diverse regioni italiane: tra le persone con un test di screening positivo l’adesione all’invito per l’approfondimento diagnostico strumentale è in media dell’80%, ma varia tra il 70% e il 90%, con una quota di persone che non si sottopone alla colonscopia di approfondimento che può quindi arrivare al 30%. Si tratta certamente di un problema culturale, in quando una volta ricevuta la conferma del risultato positivo al test, le persone possono manifestare il rifiuto della malattia come risultato di una reazione difensiva o di una interpretazione fatalistica della vita che vede l’ineluttabilità del loro destino. Purtroppo, esistono anche problemi di tipo logistico, più frequenti nelle regioni del Sud.
Dove manca un’offerta adeguata di esami diagnostici e la tempistica per effettuarli è troppo lunga, la possibilità di soddisfare tale richiesta è lasciata alle capacità culturali ed economiche di ognuno.
Una analoga variabilità nell’adesione alla colonscopia di approfondimento è stata registrata anche dal report dell’Unione europea sull’attività di screening nei paesi membri, che è stato preparato in collaborazione dal nostro centro Epidemiologico di Torino, dall’Agenzia internazionale di ricerca sul cancro di Lione e dal Registro tumori finlandese. C’è poi una questione di organizzazione: i programmi di popolazione hanno mediamente un’adesione della colonscopia dopo sangue occulto positivo molto più alta rispetto ai programmi cosiddetti “opportunistici” non organizzati, perché le persone vengono attivamente invitate e in caso di mancata adesione vengono comunque seguiti. Ma al netto di questo, la variabilità rimane pur sempre elevata con il rischio alla fine di perdere il caso individuato.
Ma lo screening gratuito per il tumore colorettale, essendo quello opportunistico abbastanza marginale nel nostro paese, serve ad abbattere le disuguaglianze sociali?
Dai dati emersi dalla survey PASSI sulle abitudini di vita e sull’utilizzo dei servizi sanitari in Italia, lo screening opportunistico per questo tipo di tumore appare decisamente marginale, con quote intorno al 9-12%, rispetto per esempio all’adesione spontanea della popolazione femminile al Pap-test e alla mammografia. Ma, sia in Italia che in altri paesi, le persone che partecipano a screening in un contesto opportunistico appartengono a gruppi sociali culturalmente ed economicamente più avvantaggiati, mentre l’accesso ai programmi di screening non organizzati è generalmente limitato tra le persone più “fragili”, con difficoltà economiche o appartenenti a minoranze etniche. Il problema che si pone in questi contesti è anche quello relativo ai percorsi diagnostici e terapeutici che seguono il riscontro di un test positivo, che sono meno controllati rispetto a quelli previsti nei programmi di screening organizzato, con il possibile rischio di ottenere un trattamento di peggiore qualità. I programmi di screening gratuiti tendono invece ad appiattire tali differenze pur senza annullarle del tutto, con un impatto importante sulla riduzione delle disuguaglianze sociali e con il vantaggio di garantire, alle persone che intraprendono il percorso di cura, una gestione dell’iter diagnostico-terapeutico di alta qualità e accessibile a tutti. Fondamentale in tutti i casi è orientarsi versi i centri di riferimento di diagnosi e cura per il tumore del colon-retto individuati in ciascun programma.
Quali vantaggi gli screening di massa come questo possono avere in termini di gestione del percorso di cura?
Lo screening di massa in qualche modo ha fatto emergere l’importanza della multidisciplinarietà, ovvero l’importanza delle fasi di passaggio tra le diverse tappe del percorso diagnostico-terapeutico in cui si collegano e devono collaborare diverse discipline mediche. Un esempio di questo è la variabilità documentata dell’interpretazione anatomo-patologica delle lesioni tumorali e pretumorali, che può discostarsi talvolta da un operatore all’altro. Questa variabilità nella classificazione delle lesioni può avere un impatto sulle decisioni cliniche e quindi sulle scelte di trattamento e sulle indicazioni alla sorveglianza. Lo screening ha favorito una standardizzazione di questi percorsi. La comunicazione e il confronto fra diversi specialisti in un contesto multidisciplinare facilitano, dunque, un processo decisionale condiviso con risultati diagnostici e terapeutici qualitativamente migliori.
L’intervento pubblico negli screening di popolazione, a fronte di un basso investimento, si traduce anche in una sensibile riduzione della spesa sanitaria
Il tumore del colon-retto è comunque il secondo tumore sia per gli uomini sia per le donne e rimane certamente una delle neoplasie che in termini di mortalità e di morbilità ha un impatto più forte a livello mondiale, soprattutto nei paesi sviluppati, ma anche, nei prossimi anni, nei paesi in via di sviluppo. Quindi è assolutamente giustificato intraprendere lo screening di popolazione per individuare il tumore in fase precoce, con un impatto non solo sui costi sanitari, ma anche sul trattamento dei pazienti e sulla relativa prognosi.
Inoltre, si può ricordare che negli ultimi anni, con l’introduzione dei nuovi farmaci biologici, la spesa sanitaria per trattamenti del tumore al 3° e 4° stadio sta crescendo in maniera esponenziale, con costi sempre più difficilmente sostenibili dal Sistema sanitario nazionale, tanto da far diventare favorevole anche il rapporto costo-efficacia di metodiche di screening costose come la colonscopia. I modelli di screening che fanno risparmiare sono quelli con una forte componente di prevenzione, attraverso i quali è possibile individuare le lesioni neoplastiche preinvasive, con un vantaggio netto rispetto all’investimento previsto.
Ma, nell’ambito del tumore del colon-retto, è possibile lavorare anche con l’obiettivo della prevenzione primaria, combinando lo screening di massa, con interventi mirati a modificare lo stile di vita: sono esemplificativi in questo senso proprio i dati americani, che mettono l’accento sull’aumento di questo tipo di tumore in fasce di popolazione più giovani, tra le quali però è anche in aumento l’obesità soprattutto nei gruppi etnici socialmente più svantaggiati, come gli afroamericani o i latinoamericani, che consumano junk-food invece che cibi più sani, ma anche meno economici. L’incremento dell’obesità, attribuibile in larga misura ad una alimentazione inadeguata, è stato indicato come uno dei possibili fattori che potrebbero spiegare il trend di una maggiore incidenza del tumore colorettale prima dei 50 anni emerso negli Stati Uniti.
Che ruolo ha in tutto questo il medico di medicina generale, che non in tutti i casi ha modo di interagire con le reti oncologiche nazionali?
Il medico di medicina generale |MMG| ha un ruolo importante in quanto rappresenta il primo punto di accesso, senza limiti temporali, al servizio di assistenza sanitaria nazionale da parte della sua utenza. Per questo è importante che sostenga i programmi di screening, conoscendone le modalità di attuazione e le procedure con cui vengono organizzati nel proprio territorio, come anche gli interventi mirati a promuovere una modificazione degli stili di vita. C’è comunque un rapporto stretto tra le autorità sanitarie locali, provinciali e regionali e il MMG, che rappresenta il riferimento principale per i suoi assistiti anche per la partecipazione allo screening: l’assistito vi partecipa più volentieri se la lettera di invito arriva a firma del suo medico di famiglia. D’altra parte, lo stesso MMG non può avere un ruolo organizzativo e logistico, perché non ne avrebbe gli strumenti informativi adeguati e il tempo necessario.
Quanto ha pesato l’ondata pandemica da Covid-19 sugli aspetti organizzativi e sull’offerta dello screening?
Sta pesando molto. Durante il primo lockdown gli screening sono stati sospesi praticamente in tutte le regioni. Nell’attuale fase di ripresa, per garantire il distanziamento e la riduzione dei rischi di contagio, le procedure sono diventate inevitabilmente più complesse e richiedono tempi più lunghi, con il risultato di poter effettuare un numero inferiore di esami a parità di orario. Inoltre, a fronte delle criticità determinate dalla crescita dei contagi, gli operatori vengono anche assegnati a supportare le attività legate all’emergenza, sia negli ospedali che sul territorio, senza avere più il tempo di praticare l’attività di screening. La disponibilità di personale si può poi ridurre ulteriormente, per i casi di contagio tra gli operatori.
Concludendo, in questo momento nel nostro Paese c’è un evidente rallentamento dell’attività di screening rispetto al 2019, che è ridotta del 50% con un ritardo quantificabile in 5-6mesi rispetto all’attività consueta. Un problema sempre più pesante conseguente alla mancata offerta di test di screening è l’aumento del numero di casi di tumore non diagnosticati, che saranno diagnosticati nei prossimi mesi in stadi di evoluzione purtroppo più avanzati. Si tratta di un problema che non coinvolge solo l’Italia, e sarebbe interessante individuare strategie che permettano di recuperare in tempi brevi la quota più ampia possibile di questo ritardo nella prevenzione dei tumori del colon-retto.
Per ottenere questo obiettivo sarà comunque necessario mettere a disposizione risorse aggiuntive, con la consapevolezza che si tratta di investimenti mirati a ridurre l’impatto negativo, in termini di costi e carico di malattia, che si determinerebbe nei prossimi anni in assenza di interventi per recuperare il ritardo accumulato.
Giorgio Cavazzini