Nacque Isidore Luciene Ducasse, visse come Conte di Lautréamont, per i compagni di scuola era “il Vampiro”. Gli fu consentito firmare le prime due edizioni dello scritto per cui sarebbe rimasto nella Storia con tre asterischi, mai messo vendita dall’editore Lacroix, impaurito dalla brutalità della prosa. Resistette sul pianeta Terra il soffio di 24 anni. Poi, quale spirito, attese il suo tempo.
Che arrivò ben presto dopo la sua morte, avvenuta a Parigi il 24 settembre 1870. “I Canti di Maldoror” incominciarono a sprigionare il fluido tetro che contengono e niente poté più fermare l’esondazione carsica che ne sarebbe derivata. Al massimo arginarla, in modo che solo un circolo di carbonari della subcultura potesse esserne toccato.
Questo ragazzo, nato a Montevideo e da bambino emigrato in Francia, che modificò il suo nome estraendolo in parte dal romanzo “Lautréamont” di Eugène Sue che alterò spostando due vocali (una corrente di pensiero sostiene che così l’assonanza conduce a “l’altro mondo”) e di cui esiste una sola fotografia, è oggi oggetto di una biografia romanzata dello scrittore uruguaiano Ruperto Long, “Non Lascerò Memorie“, edita da Castelvecchi. Ottimo spunto per accendere la luce su colui che usò il suo genio “per dipingere le delizie della crudeltà”.
La mano sinistra della letteratura
I sei canti che compongono il suo lavoro maggiore (i successivi Poiésis I e II hanno stile e temi propri) vengono comunemente descritti poema in prosa, ma la definizione non dice un bel niente. Maldoror canta la natura atroce dell’uomo e contemporaneamente muove una rabbiosa disfida all’Onnipotente. È l’elegia del Male come felicità pura e assoluta, l’irrisione dell’ordine borghese che si paventa erede della cultura neoclassica.
Il delirio della sua ragione malata, come l’autore la definisce, si trasforma in un linguaggio bruciante, una Rmn sintattica che affonda l’occhio nelle carni straziate dell’essere umano, elettromiografia narrativa che ripercorre le urla dei tendini colpiti. Una scrittura della mano sinistra impregnata dallo zolfo della morale assente, cannibalismo letterario post morgue.
Il Primo Male
Nell’artiglio insanguinato della prosa si alternano iperboli corrosive, visioni da incubo, attacchi a testa bassa ed espiazioni da olocausto in cui il protagonista Maldoror (gioco di parole che nasconderebbe “male d’aurora” ergo male di vita) diventa coscienza del Primo Male che celebra le forze distruttrici, esalta l’opposto che religione e tradizione perseguivano (dall’omosessualità al meretricio). Dedica un inno all’Oceano, nella cui profondità abissale si augura dimori il Principe delle Tenebre che mostrerà l’inferno all’uomo. E con rabbia si rivolge al Creatore, le cui possenti “finzioni celesti” gli impongono l’ascolto delle agonie del suo “canile”, intimandogli di volgere lo sguardo altrove (“lasciami perdere, come il vermiciattolo che striscia sottoterra”).
Un enigma coperto
Una furia oratoria che non ha pari nella storia della letteratura, da far retrocedere il Marchese De Sade a educanda. Nel 1920 Man Ray lo celebrò realizzando la fotografia Indovinello (o L’enigma di Isidore Ducasse) in cui raffigura un oggetto coperto dalla tela di un sacco grigio imbrigliato da una corda. Un oggetto poi distrutto dallo stesso artista per significare l’eternità intoccabile, l’ambivalenza a cui si volle consegnare nei secoli dei secoli il giovane poeta che osò sfidare Dio.
Corrado Ori Tanzi