Nato sotto la Madunina e poi migrato nel cuore del Mediterraneo, Lorenzo Pepe, classe 1969, è un orafo che sperimenta con i materiali inediti e cerca di riprodurre il mare nelle sue opere.
Sei un milanese trapiantato a Formentera, in che modo Italia e Spagna, città e isola influiscono sul tuo stile?
Sì, sono un milanese trapiantato a Formentera, ormai da più di vent’anni. Si sta avvicinando momento in cui avrò vissuto tanto a Formentera quanto in Italia. l’Italia per me è un universo culturale e un referente assoluto in termini di qualità e profondità. Forse Milano mi ha anche dato una certa etica del lavoro. Ma questo lascio che siano gli altri a dirlo. La Spagna mi ha dato la leggerezza, la facilità nel cominciare, l’apertura mentale e l’accettazione del mio ruolo di artigiano e artista. L’isola di Formentera in termini creativi mi ha insegnato quasi tutto.
Da dove trai ispirazione per le tue creazioni?
Principalmente dal mare, ma più in generale dalle forme viventi e dalla biologia in tutte le sue manifestazioni. È un lavoro sull’architettura della vita, sulla sua struttura e morfologia, come sul linguaggio artistico. Fin da piccolo, indago le forme viventi e il fascino che mi procurano. Purtroppo mi manca il rigore e la metodica di uno scienziato e quindi interrogo in termini artistici il mondo dei viventi, soprattutto le piccole creature, gli invertebrati, i muschi, i licheni, i batteri, i funghi…la vita nella sua manifestazione più umile e diffusa. Ambisco alla costruzione di un linguaggio originale con cui interpretare queste forme, generando le mie risposte. Vedremo…
Con quali materiali preferisci lavorare? Ce n’è uno che ti caratterizza più degli altri?
Negli ultimi anni, per i miei modelli da fondere, ho dedicato i miei sforzi alla modellazione della schiuma di poliuretano che, rispetto alla normale cera da orafo, si caratterizza per essere un materiale leggero e molto poroso. Questa sua accidentata superficie si trasmette al metallo nel processo di fusione, conferendo ai pezzi una tessitura unica.
Inoltre il poliuretano, nonostante i suoi limiti e difetti, è morbido e facile a modellare, quindi permette una rapida indagine sulle forme. Un materiale più duro e compatto come la cera ridurrebbe drasticamente il numero di pezzi prodotti nel tempo. Trovo questo avvicendamento delle forme, molto vicino all’estetica che inseguo, un brulicare di forme e stili che si auto giustifica.
Rispetto al pezzo finito sto lavorando molto il bronzo e le patine di ossidazione. Ho delle difficoltà a lavorare con il colore, da sempre. Ma le patine di ossidazione sono inerenti al materiale: l’ossido di ferro è rosso ruggine, quello d’argento è nero pece e quello del bronzo possiede una amplia gamma di toni, dall’azzurro al giallo ocra, passando per il verde e il marrone. Inoltre gli ossidi cambiano con il tempo, le patine sono sensibili a temperatura e umidità. Storicamente la bellezza in oreficeria è data dall’uso di materiali eterni: oro, pietre dure, anche lo stesso argento è un metallo molto stabile. Il gioiello è da sempre avvolto da una aura di eternità, abbiamo pezzi romani ed egizi ancora splendidi. Io inseguo un’oreficeria che, pur cambiando, sia bella nel tempo e non al di fuori di esso.
La gioielleria è soggetta al cambiamento delle stagioni come la moda o tende ad avere le sue costanti?
Mi rendo conto di essere profondamente ignorante rispetto al mondo della gioielleria come arte applicata. Immagino che come ogni cosa sia soggetta alle mode. Personalmente, spero che non si legga questo come una dichiarazione di snobismo, mi interessa poco sapere cosa è di moda, scegliere i materiali del momento ed essere attuale. Inseguo un’inattualità ideale, un essere al di fuori del tempo rispetto alla mia estetica, alla mia indagine, cercando una connessione, un’ispirazione antica e universale. Per me si tratta soprattutto di andare alla sorgente, all’origine.
Come hai vissuto i periodi di stop dovuti all’emergenza sanitaria? Ne hai approfittato per mettere mano a qualche progetto?
In realtà come è accaduto a molti, lo stop obbligato dell’emergenza sanitaria mi ha permesso dedicare più attenzione alla famiglia: a mio figlio, a mia moglie, alla casa. Di fermarmi, osservare, aspettare, avere pazienza, semplicemente vivere. Ovviamente ne ho approfittato per divagare, per leggere cose nuove, per sperimentare con forme grandi, lontane dall’oreficeria e prossime alla scultura. Il risultato di questi esperimenti mi emoziona moltissimo, ma non ha ancora preso vita per problemi logistici. Devo riconoscere che in ambito professionale mi aiuta moltissimo avere degli obiettivi a breve termine: la stagione turistica, le fiere internazionali e il Natale sono per me forti stimoli che mi spingono alla produzione e alla sperimentazione. Quest’anno infausto era iniziato per me come un periodo di sfide interessanti. Tutto è caduto. Ho senz’altro risentito di questa mancanza di direzione, di questa assenza di un punto prospettico davanti a me. Ma si imparano cose. Ne ho approfittato per dedicarmi di più alle reti sociali, un tema complesso e ormai ineludibile, fitto di aspetti positivi e negativi che non riuscirei ad affrontare qui. Ma devo ammettere di aver trovato nel mio profilo instagram un appoggio e uno stimolo alla creazione di nuove forme e nuovi pezzi. Come fosse una fiera internazionale permanente.
Se è vero che non tutto il male viene per nuocere, pensi che la pandemia ci abbia insegnato qualcosa?
In linea di massima sono dell’idea che tutto quello che ci accade nasconde una opportunità se sappiamo coglierla. Non sempre l’insegnamento però è facile da comprendere.
Per quanto riguarda la pandemia, ci sono senza dubbio moltissime cose che potremmo imparare come persone, ma è difficile portare a casa la lezione e metterla in pratica. Tendiamo sempre a schivare il problema con una finta, un escamotage o un passo di danza, piuttosto che affrontarlo e assumerne tutte le conseguenze. La crisi da Covid-19 potrebbe essere un momento perfetto per riconsiderare il modello economico e produttivo della nostra società, ma dubito molto che faremo questo sforzo, che si renderà comunque necessario più avanti, in virtù delle enormi sfide che i nostri figli dovranno affrontare: il cambio climatico, la sovrappopolazione, il logoramento degli ecosistemi e della biodiversità… Ciononostante ci tengo a sottolineare che non sono pessimista, ma per il momento mi risulta difficile fare un bilancio e capire cosa ho imparato o quali opportunità ho saputo cogliere.
Adriana Fenzi