Lo avevamo lasciato una decina di anni fa ne L’uomo di paglia, dopo la sua apparizione nell’esplosivo Il poeta. Michael Connelly ritorna al giornalista di nera Jack McEvoy con La morte è il mio mestiere (Piemme, 368 pagg., 19,90 euro), ulteriore prova di come questo cronista sia il vero alter ego dell’autore.
McEvoy oggi scrive per Fair Warning, portale internet a difesa dei consumatori realmente esistente. Giornalismo d’inchiesta di quelli duri e pericolosi, fonte di querele, denunce e minacce. E poiché i guai arrivano senza che si bussi alla loro porta, McEvoy riceve la visita di due poliziotti del dipartimento di Los Angeles.
Segugio di razza
Una donna è stata trovata morta nel suo letto col collo spezzato e nella sua agenda è segnato il nome del cronista. Un incontro tra i due in effetti è avvenuto, ma è roba vecchia di un anno. Un bar, un’unica notte da lei e poi le due strade sono tornate a prendere direzioni diverse. Eppure ora il cronista è diventato persona interessata del caso, anticamera del sospetto. E i modi dei poliziotti della Lapd non sono teneri.
Da segugio di razza McEvoy si muove per conto suo. E poi il carcere lo ha già conosciuto a causa della sua professione. Gli basta poco per capire che non si tratta di un omicidio isolato. Gli basta ancora meno per percepire di essere entrato in un baratro che si allarga a ogni nuova scoperta. Un killer seriale, la vendita dei dati legati al dna umano, il superamento dell’obbligo dell’anonimato, il rapido business legato a questo commercio, la misoginia spinta dalla savana dei social media, l’interessamento al caso dell’Fbi: in soldoni, la sua nuova realtà.
Lezione di giornalismo
Da ex cronista di strada lui stesso, Connelly non dimentica quanto imparò dagli interminabili appostamenti per giornali locali fino a diventare firma del Los Angeles Time. Quando si allontana da Harry Bosch (il personaggio a cui deve la popolarità), lo scrittore di Philadelphia indossa i panni di un narratore diverso. Narrazione più spinta, frasi asciugate all’osso, i fatti che si prendono possesso della scrittura lasciando le briciole all’ambientazione. Come se il lettore si trovasse davanti a un articolo di Nellie Bly, Ida Tarbell, Lincoln Steffens, Bob Woodward o Carl Bernstein.
Nelle pieghe del racconto una chiara lezione su come raccogliere le notizie e metterle in pagina. Come aprirsi una porta da una crepa sul muro, legare i fili dei fatti, affrontare un’intervista, trovare e conservare le fonti, utilizzare la rete evitando il degrado del copia&incolla, come agire restando sensibili alle domande della deontologia professionale e fare della meticolosità la prima luce. E scrivere un articolo con un capo, un corpo e una coda. I giovani che pensano di essere giornalisti solo perché sotto uno scritto c’è la loro firma ne trarrebbero giovamento.
Se ne giovano in ogni caso i lettori. La storia ci sequestra, da subito veniamo coinvolti da un narrare che non conosce pausa di respiro, dove niente è scontato e tutto seduce. Marchio di fabbrica di uno scrittore certo ricco e arrivato. Ma forse proprio per questo ancora capace di sorprenderci.
Corrado Ori Tanzi