Ci sono scrittori la cui parabola ha, come ventosa, attirato a sé almeno un personaggio monster. È il caso di Victor Hugo (1802-1885), padre di Jean Valjean, protagonista de I Miserabili (1862) che il tempo ha elevato a icona letterario-sociale.
Romantico lontano da ogni estetismo, preso di mira dalla sorte (tre dei quattro figli conosceranno la morte e la figlia Adèle sarà rinchiusa in manicomio), riformatore in politica da autentico sostenitore della democrazia, sostenitore dei diritti civili di ognuno (prostitute comprese) e avverso tanto alla pena di morte quanto alla civilizzazione mediante l’uso militare, con il tragico Valjean lo scrittore diede concretezza a quel servizio, a un’idea che considerava compito primo della letteratura.
Chi è Jean il miserabile?
Ma com’è questo figlio che porta con sé tanti tratti estranei al “padre Hugo” che lo avvicinano senza vergogna a esso?
Jean Valjean è un reietto e un ladro. Condannato ai lavori forzati, prende le parti delle donne di malaffare, dimostra la sua forza contro le persone che la società considera perbene. Non solo sussurri e voci dicono che pure sia innamorato della sua figlia adottiva Cosette.
Un facinoroso senza profondità, un sedizioso non certo in grado di concedersi il privilegio di monologhi interiori. Se il gabbio gli ha dato la possibilità di leggere qualche libro la sua cultura resta lì, incarcerata.
E a dirla tutta è una sorta di fratello minore di Frankestein, proprio quello di Mary Shelley. Perché è un po’ il criminale rivoluzionario Eugène-François Vidocq, un po’ ha il profilo di Pierre Maurin, il poveretto messo ai ceppi per aver rubato del pane per i figli, per una buona parte nasconde nientemeno che Napoleone Bonaparte e per un’altra cela le vesti dello stesso scrittore. In ogni caso non ha niente di suo.
Figlio umano, troppo umano
Un mostro secondo la visione perbenista. Un miserabile che da due secoli ispira uomini e donne di lettere e di pensiero. Colui che strappa la maschera a chi pensa che la vita sia un interminabile Carnevale di Venezia e pretende di essere cieco e sordo alle sofferenze di chi gli cammina a fianco. L’uomo che affronta a viso aperto il dramma della redenzione. E si fa figlio umano, troppo umano.
Eroe senza scalata, mito senza trasformarsi in martire. Carne viva che entra nel tunnel dell’espiazione uscendone con le macchie sbiadite del passato. Perché non è vero che non esiste una seconda possibilità. Ne esiste una terza, una quarta e pure una quinta finché il nostro corpo ha calore e i polmoni pompano aria.
L’uomo del buio illuminato
Jean Valjean è l’uomo che fa della vita creta da modellare con le dita della giustizia e della giustizia mirino da inquadrare anche attraverso lo strumento della morte. La propria. È la voce del riscatto gridata dal singolo, che se nasce pezzente può perfino pensare di vivere da cavaliere e morire da poeta. Colui che sbaglia, cade, osserva con occhi titanici le ferite del dolore, pecca e di nuovo pecca. Ma che cerca di essere probo perché la legge non solo deve essere uguale per tutti ma per tutti in primis equa. Anche se si deve vivere nella tormenta del buio.
Proprio come il padre. Nei secoli Victor Hugo.
Corrado Ori Tanzi