Dylanologia: pseudoscienza caratterizzata dalla caparbia analisi di ogni dettaglio riguardante la vita, l’arte di Bob Dylan o di chi gravita nella sua orbita, seguita da una folla di seguaci in tutto il mondo. Questa la definizione del critico musicale americano Grayson Haver Currin.
Volente o nolente Bob Dylan ha prodotto un morbo che si autoalimenta e si cura solo evitando di voler guarire. La centralità di questo artista nella cultura contemporanea è testimoniata, oltre che dalla sua opera in sé, da corsi universitari, convegni (uno anche nel nostro Paese), saggi critici, uscite editoriali e discussioni in rete frutto di un interesse che non ha fine.
Senza frontiere
L’inglese Andrew Muir, autore e professore, da anni è impegnato nell’analisi degli intrecci letterari ed extra tra Dylan e William Shakespeare, partendo dalla loro comune definizione di Bardi. Il critico letterario Christopher Ricks, anch’egli britannico ma ora professore alla Boston University, organizza seminari e corsi sulla centralità della figura di Dylan, definendolo «il più grande utilizzatore vivente della lingua inglese».
Semplici esempi. Alessandro Carrera, Renato Giovannoli, Alex R. Falzon sono loro colleghi italiani la cui opera in merito è altrettanto fondativa per l’approfondimento dell’intero corpus del pensiero dylaniano.
Gli interventi che compongono questo articolo sono l’apporto diretto di dylaniati doc e la citazione di due passaggi in passato pubblicati altrove.
Cattedratici, artisti e professionisti che seguono questo magnetico e seminale autore, l’ultimo sopravvissuto di una perduta età dell’oro “con lo sguardo sempre a prua”, riprendendo la bella immagine di uno di loro.
Il perché di tutto questo? Perché it’s life and life only.
La fedeltà verso se stesso
Una frase su Bob Dylan? La migliore che mi viene in mente non è mia, è di Christopher Ricks, l’autore di Dylan’s Visions of Sin. Gliel’ho sentita pronunciare al convegno “Highway 61 Revisited: Dylan’s Road from Minnesota to the World”, una quattro giorni tenuta all’Università del Minnesota nel 2007. Non so se lui l’abbia mai poi scritta, ma così l’ha detta: «Non siamo noi che dobbiamo spiegare perché siamo ossessionati da Dylan. Casomai sono gli altri che dovrebbero spiegare perché non sono ossessionati loro».
Quanto a me, potrei dir questo: la fedeltà che Dylan dimostra verso se stesso, proprio nel suo continuo cambiare pelle, ispira nei suoi appassionati una fedeltà opposta e complementare, quella di rimanere sempre fedeli a lui, senza mai cambiare bandiera. Se poi qualcuno dice: sono un grande appassionato di Dylan, ma ho smesso di ascoltarlo dopo…, non è un grande appassionato di Dylan.
Alessandro Carrera – professore alla University of Houston, saggista, traduttore in italiano di Bob Dylan
Anticipatore in un tempo non lineare
Bob Dylan ha sempre ragione. Questa è la prima cosa da sapere. Ha sempre ragione, ma te ne rendi conto cinque, dieci, vent’anni dopo. Perché per lui il tempo non è lineare come per noi comuni mortali. Lui ha già visto il futuro, lui è a Newport nel ’65 ha già visto nascere il punk e, anche se lo fischiano, sa di aver ragione. Tutto quel che fa ha un senso, anche se non lo capiamo: il disco natalizio, la canzone per Joey Gallo, i dischi da Cristiano Rinato.
Nello stesso anno di The Freeweelin’ Bob Dylan usciva Doctor Who, la serie su un alieno che viaggia nel tempo e periodicamente cambia volto e personalità. Bob Dylan forse viaggia nel tempo, per quello dedica un pezzo a John Lennon nel 2012 e uno a Kennedy nel 2020.
Non cambia volto, ma corde vocali: quante voci diverse ha avuto in carriera? E personalità: a volte è un emulo di Frank Sinatra, a volte un predicatore elettrico e comunque, ha sempre ragione. Solo che lo capiamo dopo.
Gianluca Morozzi – scrittore
Dedizione alla sua Musa
L’opera di Dylan mi commuove. Molte sue canzoni, a volte pochi versi o addirittura anche una sola parola “appoggiata” in un certo modo, hanno trovato una via dentro di me che mi ha aiutato a interpretare momenti della mia vita o a sentire, quasi li avessi provati io, stati d’animo che forse neanche lui aveva in mente.
L’opera di Dylan mi piace per il suo spessore artistico, per la dedizione alla sua Musa, per il suo non smettere di farsi le domande importanti, per il suo rifiuto di essere consolatoria, per la naturalezza nell’evocare paure e speranze, per la capacità d’intravedere il mistero insito nelle più semplici canzoni, per la maestria nell’uso delle parole e nel modo di porgerle, per aver creato melodie indimenticabili, per avermi dato i brividi soffiando nell’armonica, fosse dolce o minacciosa, e per tante altre cose.
Dylan è molto più di un rocker. Ma di tutti i protagonisti di quegli anni in cui ero giovane ho la sensazione che lui, dentro, lo sia rimasto molto più di altri.
Alexan Alexanian – medico
Il suo camminare nella Bibbia
Per me le canzoni di Dylan sono uno straordinario esempio di opere in cui si manifesta il mistero e il miracolo della poesia, che in questo caso è tutt’uno con la voce che la recita e la musica che l’accompagna. Il mistero: da dove viene la poesia? Il miracolo: com’è possibile che nasca? Se l’ho studiato in prospettiva biblica, della poesia e della musica tradizionali, è perché era la pista per rispondere almeno in parte alle due domande.
Bibbia e poesia tradizionale hanno a che fare con miracoli e misteri e le canzoni di Dylan sono costellate di enigmi, invito e sfida allo svelamento. Non si tratta di surrealismo, nonsense o enigmistica meramente ludica.
Anche la letteratura sacra tradizionale è composta di enigmi perché l’enigma è simbolo del mistero. Questo è il secondo motivo dell’attrazione irresistibile di Dylan. Non il cantante di protesta, il rappresentante di una generazione, il Dylan “sociale”, che forse non è mai esistito. Sentivo Dylan, in modo autentico, un autore di letteratura sapienziale.
Renato Giovannoli – docente di filosofia, ricercatore, semiologo
Il miracolo di un’epifania continua
Se nel famoso gioco dell’isola deserta, mi chiedessero tre cose da portare con me, una di queste (barando) sarebbe tutta la discografia di Dylan. Perché sarei sicuro di trascorrere il resto della mia esistenza scoprendo ascolto dopo ascolto qualcosa di nuovo. Questo è per me Dylan: il miracolo di un’epifania continua, la possibilità di trovare ogni volta nuovi significati in parole che conosco a memoria e che, quando ero ragazzino, ho appeso alle pareti della mia camera e non mi hanno più abbandonato.
La sua produzione ha qualcosa di alieno, non appartiene alle sfere terrestri. Una volta chiese a Leonard Cohen quanto ci avesse messo a scrivere Halleluja e lui rispose: «Circa un anno». Quando Cohen gli chiese quanto ci avesse messo a scrivere I and I (dall’album Infidels che amava molto) Dylan gli rispose: «Quindici minuti».
Questo è Bob Dylan, il mio amico sull’isola deserta che non mi dirà mai due volte la stessa cosa.
Federico Sirianni – cantautore
Rivoluzionario del songwriting
Reputo Bob Dylan fondamentale da ogni punto di vista artistico, in quanto sono sei decenni che la sua produzione cambia le regole mentre lui vive e lavora avvolto da un alone di mistero. Il cinico, sfuggente e beffardo Dylan che non dà spiegazioni delle sue scelte, né vuole piacere a qualcuno, che tiene lontano il privato come a scomparire. Eppure è in mezzo a noi con un tour che dura dal 1988.
A quasi ottant’anni, dentro a una pandemia planetaria, ha pubblicato forse il miglior disco del 2020, Rough and Rowdy Ways, con la perla del suo brano più lungo di sempre, Murder Most Foul, un capolavoro di quasi diciassette minuti.
Dylan è il poeta del Ventesimo secolo, senza aver avuto la necessità di considerarsi poeta, il rivoluzionario del songwriting. Il pioniere di una letteratura nuova, tutta sua, classica ma moderna, con lo sguardo sempre a prua. Un musicista omaggiato da un Pulitzer e un Nobel per le sue parole.
Amo gli Oasis, che in apparenza hanno poco a che vedere con lui. Senza i Beatles non sarebbero esistiti gli Oasis, ma senza Dylan non avremmo avuto Revolver o Sgt Pepper. Senza accorgersene ha influenzato il suono della generazione di musicisti di Manchester a partire dai primi anni ’90.
Il mondo è un posto migliore quando Dylan esce con un disco.
Alberto Pezzali – fotografo
Canzoni tridimensionali
La differenza credo stia nell’uso modernista della citazione e nella tridimensionalità delle canzoni, le quali, prendendo a prestito un’immagine di Henri Bergson, inglobano il passato e fagocitano il futuro, evolvendosi instancabilmente con il loro autore. Con le dovute differenze, si potrebbe dire che Bob Dylan rappresenta per la canzone d’autore quello che Marcel Proust o James Joyce per il romanzo.
Fabio Fantuzzi – docente di Lettere, Americanista all’Università Roma Tre
La sublimazione del mio quotidiano
Bob rappresenta per me il cammino verso la trascendenza. Il suono della sua voce, nella diversa espressività assunta dall’età giovanile alla vecchiaia, riesce a sublimare il mio quotidiano. Ne ho bisogno per iniziare la giornata, devo avere la mia dose senza la quale il mio mondo non gira. Ogni tanto provo ad ascoltare altro, ma l’appagamento è transeunte: mente e anima hanno necessità di Bob. Non ne ho mai abbastanza. Lo ascolto e imparo qualcosa di nuovo ogni giorno.
Il morbo iniziò a diffondersi dentro me un giorno del 1998, quando per la prima volta andai a un suo concerto e il mio destino si compì. Al tempo conoscevo poco di lui, salvo alcuni pezzi, noti anche al quisque de populo, che mi era capitato di ascoltare distrattamente.
Nel 1984 arrivò in Italia, ma mancai l’appuntamento di Roma perché travolta da una grave perdita. Poi quel 5 luglio 1998. Sulla scalinata del Palazzo della Civiltà del Lavoro fu una folgorazione. Rapita e sbalzata in un mondo parallelo da quell’uomo vestito di bianco. Così iniziò la mia fame di conoscenza. Divorai i suoi dischi, i bootleg, i libri. E cominciai a disporre le cose della mia vita per seguirlo dal vivo il più possibile.
Marina Gentile – avvocato civilista
Il regalo per la mia “immortalità”
Bob Dylan è la voce che mi ha guarito un pomeriggio di fine anni Sessanta dai postumi di una tremenda emicrania. Ballate d’amore con parole inedite in canzoni di sabbia, ruggine e diamanti. Le sue canzoni, la sua voce, furono ispirazione e conforto quotidiano.
Il percorso di crescita, l’abbeverarsi al torrente rigoglioso della sua musica e poesia giunsero alla fonte del maestro: Norimberga, 1 luglio 1978. Fu devastante: Masters of War gridata verso il rostro da cui Hitler aveva delirato con le sue bestemmie. Parole come carboni ardenti. Una torcia nella notte, il fratello che ci insegnava a trovare il significato della vita in ogni grano di sabbia. Sempre uguale la forza emotiva, diverso il modo di entrarci nelle vene: canzoni, musicisti, arrangiamenti, fraseggi melodici, tonalità vocali. L’Odissea di uno spettatore davanti all’Omero musicale.
Dopo 51 anni, dopo una notte insonne, mi ha sorpreso all’alba con un video. Incerto nel decifrare se di novità o ripescaggio dagli archivi segreti si trattasse, ho realizzato che l’immagine era una mia foto a lui scattata 24 anni prima. Chi mi prendeva per i fondelli all’alba di un aprile pandemico manipolando una canzone con un video che usava un mio scatto? Sony Music, Dylan Office, come poi avrei realizzato con alcune notifiche da New York.
E a giugno, il regalo più inatteso: un nuovo album di strepitosa bellezza, con arte grafica della confezione che utilizza anche la stessa mia foto del video.
Grazie Mr Dylan.
Andrea Orlandi – dottore commercialista
Visionario fonte di emozioni
Anche chi ama perdutamente Bob Dylan e la sua musica può incontrare serie difficoltà nel tentativo di dare senso compiuto ai suoi testi visionari. E del resto è pure difficile riconoscere subito, quando Bob le canta dal vivo, anche le sue ballate più famose. Penso che tante difficoltà abbiano una sola spiegazione: vogliamo usare ragione, grammatica e vocabolario per tentare di capire Dylan, mentre invece dovremmo farlo solo attraverso le emozioni che la sua musica e i suoi testi generano in noi. Dobbiamo essere visionari come lui, insomma.
Armando Spataro – ex procuratore della Repubblica Italiana
(Tratto da Il Fatto Quotidiano 18.03.2011)
Senza sarei stato un uomo diverso
Quando ascolti Bob Dylan cosa provi? Cosa ti arriva dal suo mondo? In America nessuno si sognerebbe di negare che la sua sia arte e che le sue canzoni esprimano dignità e potenza artistica. (…) Se non ci fosse stato Bob Dylan sarei probabilmente un uomo diverso. Mi ha nutrito come ascoltatore. E come artista ho preso alcune cose da lui. Non ho problemi ad ammetterlo. Ho tradotto le sue canzoni ed è stata un’impresa sovrumana. Per scrupolo sono andato a leggermi la letteratura critica che è apparsa su di lui. Beh, ho trovato un accanimento esegetico sui suoi testi che non c’è stato nemmeno per Dante o Leopardi. (…) Poi non sarà casuale che gli artisti che mi sono sempre piaciuti non hanno mai ecceduto nella spettacolarizzazione. Se vai a sentire un concerto di Bob Dylan non ci trovi niente più dell’essenziale. (…) Dylan è un artista che fa della letteratura usando la canzone.
Francesco De Gregori – musicista
(Tratti da Francesco de Gregori con Antonio Gnoli, Passo d’uomo, Laterza)
Corrado Ori Tanzi
[…] di Pisa, solida base di teoria musicale e di letteratura, interviene nell’estesa pubblicistica su Bob Dylan con un testo corposo che studia l’intero iter compositivo del brano, il profilo filologico e la […]