Al Trieste Film Festival, un film introspettivo che parla di paure emotive e pregiudizi sociali
Svetla è una vedova che ha recentemente perso il lavoro come insegnante, dato che la scuola ha chiuso per mancanza di allievi. Vive in un villaggio bulgaro al confine con la Turchia, terra di passaggio di molti profughi diretti verso altri paesi europei. Un giorno, mentre è a caccia nella foresta, incontra un migrante africano. Da cittadina rispettosa della legge, lo consegna alla polizia di frontiera, ma le viene detto di arrangiarsi da sola, ci sono troppi profughi e mancano le strutture per ospitarli. Svetla decide, quindi, di accogliere in casa l’uomo, ma questo porta la sua vita a una svolta drammatica: è costretta a mettersi contro tutte le persone con cui ha vissuto fino a quel momento, che esigono che il rifugiato di colore lasci immediatamente il villaggio.
Ivaylo Hristov
Regista e sceneggiatore dell’opera è Ivaylo Hristov, nato il 10 dicembre 1955 a Sofia, in Bulgaria, si è laureato presso il dipartimento di recitazione dell’Accademia Nazionale di Teatro e Arti Cinematografiche di Sofia. Nel 2016 ha diretto Losers, un’accattivante storia di formazione girata in bianco e nero, con cui ha vinto il Golden George al Moscow International Film Festival.
Il titolo Strah in bulgaro significa paura, il film tuttavia non è un horror, ma una descrizione delle paure intime, proprie della condizione umana. Come mai hai fatto questa scelta?
Nei film dell’orrore la paura è usata per attrarre gli spettatori. Nel mio film, invece, la paura è il centro della storia e ha l’obiettivo di sollecitare alcune riflessioni. Perché le persone hanno paura degli stranieri? Di chi ha un diverso colore di pelle, credo religioso o orientamento sessuale? Non vorrei cadere nel politically correct, ma credo che nell’era della comunicazione, quella in cui possiamo facilmente raggiungere qualsiasi punto del globo, il fatto che spesso ci rifiutiamo di parlarci gli uni con gli altri sia completamente assurdo.
La sceneggiatura parla di immigrazione, di condizioni dei rifugiati e di razzismo, qual è la tua opinione circa queste tematiche?
La questione è molto delicata e se decidessi di dire tutto ciò che penso in proposito ci metterei un giorno. Io credo che il razzismo sia anacronistico e che le persone che lo professano siano incompatibili con i tempi in cui viviamo. Non sono le persone che fuggono dalla guerra che dovrebbero essere biasimate, ma quella parte di politica che ha premesso che i conflitti iniziassero!
Tu critichi in maniera abbastanza tagliente le istituzioni. Quali pensi siano i limiti della politica?
Non posso certo avere una buona opinione di quei politici che in campagna elettorale promettono alcune cose e una volta eletti ne fanno altre. Sfortunatamente il mondo non ha ancora inventato la forma ideale di governo. Io personalmente spero nell’intelligenza artificiale. Sto facendo ironia ovviamente, ironia amara per la verità!
Alla fine del film Reciti un cammeo: il ruolo del conducente della carrozza che porta i protagonisti altrove, ma senza arrivare a destinazione. Qual è il senso metaforico di questa scena?
La chiave di questo episodio è la frase che pronuncio: “Io mi fermo qui”. È un messaggio di addio dell’autore ai suoi personaggi: finora ho cercato di aiutarvi, ma non ho alcuna autorità in Africa! Un tentativo di scherzare con me stesso.
C’è un’esperienza della tua vita personale che ha ispirato questo film?
Sì, mi è capitato di essere arrestato, per errore, insieme ad un gruppo di rifugiati. Non dimenticherò mai i loro occhi, raccontano storie che non auguro a nessuno di vivere!
Adriana Fenzi