Intervista al Prof. Davide Pagnoncelli : Come affrontare la pandemia con responsabilità senza replicare l’Urlo di Munch

Dopo che esperti ed epidemiologi di tutto il mondo l’avevano presagita da anni, la pandemia alla fine ha fatto la sua comparsa diffondendosi urbis et orbis, trovando stati, governi e popolazioni totalmente impreparati. Ma se da una parte tutti sono in attesa di vaccinarsi contro il virus Sars-CoV-2 con la speranza di interrompere la catastrofe imminente, sia da un punto di vista sanitario che economico, dall’altra monta l’onda negazionista di una parte dell’opinione pubblica che si oppone a questa soluzione intimando ragioni complottiste di portata planetaria. Una situazione fuori dall’ordinario che mette a dura prova le resilienza di ognuno di noi.

Per approfondire l’aspetto soprattutto psicologico e comunicativo di questa realtà “abnorme” che stiamo vivendo, ci siamo rivolti ad un “allargacervelli”, come preferisce farsi chiamare lui: Davide Pagnoncelli. Psicologo, psicoterapeuta con specializzazione in Teatroterapia e Arteterapia, Davide ha un’esperienza ventennale in ambito scolastico come responsabile di un originale Servizio psicologico di sistema, da scuola primaria alla secondaria di primo e secondo grado.

Allora Davide, come bisogna affrontare questa emergenza legata al Covid-19? 

In questo momento la stiamo affrontando come quando i buoi sono già scappati dalla stalla. Le situazioni critiche, come una pandemia un terremoto o un’alluvione, vanno invece previste prima. È importante, cioè, crearsi una mentalità preventiva, che però non può essere solo “difensiva” |mi preparo per lottare contro qualcosa che può minacciare la mia salute psicofisica|, ma deve essere anche “rafforzativa”, in grado di costruire e progettare nel tempo.

Non dimentichiamo che la malattia attecchisce meglio, anche il Covid è così, laddove c’è un substrato specifico già deteriorato. cioè ci si ammala di meno chi ha l’organismo più efficiente e meno deteriorato. Quindi non dobbiamo rivolgere l’attenzione solo ai microrganismi patogeni responsabili di malattia, ma anche al terreno che viene coinvolto |il nostro corpo| eventualmente già infiammato, il cui sistema immunitario va rafforzato.

Ti riferisci forse ad una strategia di prevenzione della salute di tipo olistico?

Certamente. A questo proposito ricordo la disciplina ormai conosciuta da diversi anni che si chiama PNEI, ovvero psico-neuro-endocrino -immunologia, che studia l’integrazione tra i vari sistemi non solo dal punto di vista sanitario, ma anche culturale e formativo. Se la medicina ha dei protocolli di intervento terapeutici validi, per esempio, per le patologie acute, è tuttavia necessario anche l’apporto di altre discipline che rientrano nel patrimonio significativo legate alle culture antiche, alla saggezza e alla psicologia del profondo, addirittura alla fisica quantistica che si rivelano utili per il rafforzamento delle difese immunitarie e dello stato psicofisico del nostro corpo. Essere esenti da malattie non significa essere in buona salute, ma attivare costantemente delle forze sane interiori in grado di contrastare qualunque avversità. 

Che cosa hai potuto osservare durante questo prolungato periodo di reclusione in compagnia di un pericolo imminente come il virus Sars-CoV-2?

In questi ultimi mesi si è parlato molto di Covid-19, vaccini antivirali, dispositivi di prevenzione individuale come le mascherine, ma troppo poco o per niente di altre patologie. Per esempio, i vissuti di abbandono che hanno provato molte persone, non solo anziani ma anche bambini e giovani, che si sono sentiti messi da parte e trascurati. Prenderne atto è importante perché è necessaria la “presenza”, non solo sanitaria ma anche psicologica, umana, sociale. La solitudine sicuramente nuoce alla salute, per certi versi addirittura più del fumo. Siamo stati testimoni di drammi legati alla solitudine, di patologie psichiatriche che si sono acuite, di suicidi anche tra i giovani, di disturbi della condotta alimentare, di un aumento di casi di cyber-bullismo che si sono amplificati. La solitudine vuol dire assenza di relazioni sociali, fisiche, corporee e sensoriali, con attivazione del circuito dello stress fino alla recrudescenza perfino di alcune malattie come il diabete di tipo 2. Quindi va bene parlare di Covid, ma la salute si cura prendendosi anche cura della salute, al di là del gioco di parole. Non c’è solo la salute organica, psicologica ed emotiva in senso stretto, c’è anche la salute vista da un punto di vista più allargato: cioè sociale e ambientale. 

Un messaggio che si può sintetizzare nelle parole di papa Francesco, secondo cui “abbiamo proseguito imperterriti, pensando di rimanere sani in un mondo malato”. 

Non è forse da incompetenti e da inconsapevoli pensare di curare esclusivamente pesci malati, sapendo che nuotano in un mare inquinato, mortifero e per certi versi patogeno?

Ci vuole una visione di insieme, bisogna ragionare in termini di sistema, con la consapevolezza che ci salveremo solamente insieme, salvando anche la natura.

Seguendo il filo del discorso, ognuno di noi dovrebbe sentirsi responsabile, oltre che della propria salute, anche di quella degli altri. Perché allora succede quello che è accaduto l’estate scorsa, quando tutti si sono sentiti liberi di ignorare l’emergenza nazionale?

C’è da dire che nei mesi precedenti abbiamo assistito ad una comunicazione debordante, martellante, per certi versi anche invasiva, che ha fornito informazioni spesso contraddittorie – abbiamo sentito tutto e il contrario di tutto – ma troppo concentrate sulla paura, con una connotazione quasi esclusivamente negativa. Non dico che non si debbano trasmettere notizie drammatiche, ma sarebbe bene che si investisse di più sulla responsabilità individuale: essere responsabili |dal latino re indietro e spondere promettere| significa avere l’attitudine e la capacità di rispondere reagendo alla situazione della vita in cui ci si trova. Purtroppo, ci siamo educati poco e veniamo educati poco a scuola sul fatto che ognuno di noi è insieme attore e protagonista della propria salute. Quindi si deve essere coinvolti attivamente nella terapia di qualunque malattia: la salute non può essere delegata esclusivamente a farmaci, dispositivi di protezione, medici e operatori sanitaria. Ma è un percorso che si fa insieme, al pari della guida alpina che precede il gruppo di escursionisti sullo stesso sentiero senza per questo far loro da baby-sitter. Bisogna, insomma, investire sia sulla formazione di tipo culturale a scuola, dove passiamo tutti per diversi anni, sia sulla medicina territoriale in modo che i cittadini possano gestire localmente diverse condizioni di salute attraverso le strutture preposte, riservando il Pronto Soccorso, che non può e non dev’essere un refugium peccatorum per qualsiasi cosa, alle sole situazioni di emergenza. 

C’è in tutto questo una responsabilità anche dei comunicatori, quali giornalisti, esperti, opinionisti e così via? 

Sul Covid si dovrebbero fornire non solo le informazioni su contagio, numeri dei positivi e dei morti, ma anche quelle sull’evoluzione degli aspetti positivi: per esempio su chi è guarito, come è riuscito a superare l’infezione, in modo da trasmettere degli esempi positivi altrimenti le persone si scoraggiano, si fanno assalire dalla paura. Non si tratta di edulcorare le notizie, ma di raccontare come si possono superare gli ostacoli grazie anche alle proprie capacità, al proprio stile di vita, al mantenimento di un buon livello di salute generale. La genetica è certamente importante, ma lo sono altrettanto le abitudini secondo cui viviamo quotidianamente, quelle cioè che ci consentono di fare una prevenzioni rafforzativa sia per se stessi sia per l’altrui salute.

Abbiamo visto che nel corso della pandemia il rischio di fake news è altissimo. Perché il cosiddetto debunking, cioè la demistificazione di notizie false e la rivelazione della verità,  spesso non serve?

Innanzitutto, bisogna richiamare al senso di responsabilità proprio gli stessi operatori dell’informazione. Il problema non è tanto rivelare la verità, ma semmai spiegarla. Prendiamo per esempio i bambini di fronte alla morte di un nonno o di un genitore: è importante, in questi casi, comunicare loro la morte e il lutto di un familiare con le modalità adeguate, ovviamente, evitando la censura preventiva in nome dell’età precoce o della delicatezza dell’argomento. La mancata informazione è sempre generatrice di ansia, che ostacola e impedisce la rielaborazione degli eventi. Si può parlare della morte in modo “mortale”, oppure lo si può fare in modo costruttivo per rivitalizzare la vita.

È un po’ come l’arte che serve in molti casi a rielaborare il dramma, la morte, le tragedie anche interiori. Nell’Urlo di Munch l’artista norvegese ha voluto rappresentare la condizione esistenziale dell’uomo moderno, afflitto dalla solitudine, dall’incomunicabilità, dall’angoscia. Un vissuto interiore che ha trovato espressione in un’opera d’arte invece di rimanere compresso dentro se stesso, fino ad esplodere con conseguenze inimmaginabili. Come disse l’autore, “io dipingo perché per me è terapeutico”.

In tutto questo quanto contano, secondo te, i pregiudizi?

Contano molto, perché i pregiudizi sono un po’ come le sbarre di una prigione. Il pregiudizio, lo dice la parola, è un giudizio dato prima che non ti fa “allargare” il cervello: ti fa procedere per luoghi comuni e frasi fatte, impedendoti di varcare la quotidianità e vedere la prospettiva. Noi siamo nati per andare oltre, per sognare, per scoprire altri orizzonti. Altrimenti saremmo ancora all’età della pietra o peggio ancora. Fondamentale in tutti i casi è, soprattutto, la capacità di ascolto profondo.

Suggestioni per il futuro?

Ascoltare i propri sogni e le proprie intuizioni, che ci trasmettono delle informazioni cruciali per la nostra esistenza, come ci insegnano ancora oggi le culture antiche. Ribadisco: noi siamo nati per evolvere, non per rinchiuderci in recinti.

Giorgio Cavazzini

Share on Facebook