Con Bob Dylan & Like a Rolling Stone (Mimesis, 334 pagg., 20 euro) Mario Gerolamo Mossa, dottorando di ricerca in Studi italianistici all’Università di Pisa, solida base di teoria musicale e di letteratura, interviene nell’estesa pubblicistica su Bob Dylan con un testo corposo che studia l’intero iter compositivo del brano, il profilo filologico e la sua storia performativa con un rigore scientifico sorprendente e un’anima divulgativa per la quale si potrebbe scomodare Harold Bloom senza commettere gesto impuro. Un testo ostico, ma adatto al palato di un lettore (non necessariamente dylaniano) interessato alla genesi di un’opera d’arte.
È conscio di aver scritto un unicum nella sterminata pubblicistica e saggistica dedicata a Dylan?
Se per unicum intendiamo qualcosa di completamente “nuovo”, il mio libro non rientra del tutto in questa categoria e ne sono contento. In generale, tendo a essere abbastanza scettico verso tutto ciò che, nell’arte come nella critica, si propone come “rivoluzionario”. Mi sembrano più rilevanti altri concetti, come quello di “tradizione” o “interdisciplinarietà”. Rispetto agli studi dylaniani, il mio lavoro è in fondo una “risposta” al volume di Marcus del 2005, che era sì dedicato a Like a Rolling Stone, ma prediligeva una prospettiva storico-culturale per lo più disinteressata all’“artigianalità” dell’opera. Se invece si guarda al mio libro indipendentemente da Dylan, ciò che conta davvero non è neanche il branoin sé, ma il tentativo di studiare una voce poetico-musicale attraverso il confronto tra varianti orali e varianti scritte.
Ha avuto la possibilità di fare le ricerche al Bob Dylan Archive di Tulsa, che apre le sue stanze solo alla crème degli studiosi. Che esperienza è stata?
Sono stato a Tulsa tra il maggio e il giugno del 2019, insieme al mio amico e collega Fabio Fantuzzi. Non mentirò dicendo che è stato semplice consultare gli inediti. Tecnicamente, io e Fabio eravamo lì come relatori del convegno internazionale The World of Bob Dylan (il primo organizzato all’archivio, con oltre 400 partecipanti), ma avevamo posticipato la partenza nella speranza di fare qualche ricerca. Dopo varie peripezie, il direttore Mark Davidson ha accolto le nostre richieste consentendoci di accedere alle “segrete stanze”, dimostrando che la diffidenza degli archivisti era poco più che una leggenda, diffusa soprattutto per scoraggiare le schiere di “fanatici” privi di reali interessi di ricerca. Ricordo con affetto e nostalgia le avventure di quei giorni, quando potevo passare un’intera mattinata a leggere le bozze inedite di Tarantula e ritrovami a discuterne a pranzo con Richard Thomas. La mia gratitudine verso Mark si estende anche allo scorso autunno, quando la sua mediazione con gli avvocati di Dylan è stata fondamentale per ottenere tutte le autorizzazioni necessarie alla pubblicazione del libro.
Il testo fa luce sul lungo processo compositivo di Dylan di Like a Rolling Stone, destrutturando la canzone nei mille rivoli utilizzati dall’autore dal 1965 a oggi. Sono lontano dalla verità se affermo che questa canzone non è stata ancora terminata?
Per certi versi, nessuna canzone è mai veramente “finita”, almeno se ci atteniamo all’accezione filologica tradizionale dei concetti di “originale” e “definitivo”. Ciò non significa che le canzoni siano “infinite”, ma piuttosto che siano opere impossibili da concludere in modo univoco, una volta per tutte. Come rivela anche la storia etimologica del verbo to perform, ogni performance presuppone l’intento di “ultimare” una canzone, intento che però viene realizzato senza delegittimare i potenziali esiti opposti di altre esecuzioni. Queste affermazioni si applicano in modo diverso alle singole poetiche musicali e valgono soprattutto per gli artisti che, come Dylan, non possono fare a meno di comporre cantando e viceversa. Tale pratica, nota agli oralisti con il nome di composition-in-performance, è particolarmente evidente in Like a Rolling Stone e io ho cercato di tenerne conto il più possibile. Non si tratta di un’operazione semplice perché l’oralità di una canzone popular presuppone un rapporto con la scrittura ben diverso da quello che possiamo individuare in altre arti performative, come l’epica classica, la lirica medievale, la letteratura teatrale o le tradizioni folkloriche studiate oggi dall’etnomusicologia. A ciò si aggiunge che la disciplina nota come Oral-Formulaic Theory tende tradizionalmente a negare l’idea di “originalità”, e dunque si rivela in parte incompatibile con le poetiche musicali di singer-songwriters e cantautori.
Nel capitolo sulle esecuzioni live di questa canzone, si concentra su nove performance. Siamo al cospetto non di una canzone presentata in nove modi diversi ma di nove canzoni autonome. Cosa c’è di programmato e cosa di estemporaneo in quel preciso momento sul palco?
Dylan ha dichiarato che l’improvvisazione è una parte importante del suo lavoro (“Life itself is improvised”, 1967, “We don’t live life as a scripted thing”, 1977), anche se non bisogna credere che l’improvvisazione coincida con il puro istinto. C’è anzi un metodo ben preciso, perché “freedom comes from discipline” (1984) e, per quanto sembri paradossale, imparare a improvvisare richiede sempre una lunga preparazione che aiuti i performer a comprendere cosa ogni brano consenta o non consenta di osare. Infatti, specialmente per gli artisti come Dylan “ossessionati” dall’idea di autenticità, le canzoni sono quasi delle creature viventi che impongono all’autore il modo in cui vogliono essere cantate. L’improvvisazione permette all’interprete di sentirsi “vero” sempre, ribellandosi alle logiche della serialità anche a costo di offrire al pubblico una performance tanto irripetibile quanto deludente.
Una delle rivelazioni nella lettura del suo lavoro è la scoperta che il brano contiene anche un’anima di liberazione e non solo di accusa. A me è invece sempre arrivata l’immagine del narratore che dice a brutto muso alla povera Miss Lonely: Cara mia, sei caduta. Fa male, vero? Ora sono fatti tuoi rialzarti”.
Il polo dell’accusa è senz’altro dominante nelle esecuzioni degli anni Sessanta, basti pensare a Manchester 1966. Tuttavia, la studio version inclusa in Highway 61 Revisited è sicuramente la prima performance capace di mettere in risalto l’ambivalenza del brano attraverso due ritornelli disforici e due ritornelli euforici. Questo tipo di compromesso colpì anche molti ascoltatori di allora come Paul Nelson e Michael Gray, nonostante la storia performativa sia ricca soprattutto di esecuzioni in cui una componente domina sull’altra (un’eccezione è inclusa nello MTV Unplugged del 1994). Il punto è che tale libertà appartiene tanto all’autore quanto al pubblico. La canzone, infatti, impone sempre di sentire ma non dice mai cosa sentire, né se dobbiamo identificarci in Miss Lonely, nel narratore o in entrambi: questo spetta all’ascoltatore capirlo, prendendo in mano la propria vita e facendo i conti con se stesso.
Individua tre paradigmi interpretativi principali: relazionale, confessionale e ricezionale. Ora, visto che Dylan ha più volte parlato della prosa ritmica di questo brano come il frutto di un long piece of vomit, quale dei tre è stato sin dall’inizio nelle vene dell’autore?
Fin dai primi mesi del 1965, Dylan intende confrontarsi con un nuovo tipo di canzone, che lui definisce prima “completely free song” e poi “three-dimensional song”; canzoni, cioè, “written on more than one level”, composte senza avere uno scopo preciso e lasciando all’autore il solo compito di combinare molteplici livelli di senso. Facendo riferimento a questa sorta di cut-up poetico-musicale, i tre paradigmi interpretativi che caratterizzano la fortuna critica di Like a Rolling Stone non sono affatto in contraddizione tra di loro, dal momento che razionalizzano in modo diverso l’impostazione “diaforica” della canzone. La storia performativa dimostra che Dylan è fin dall’inizio ben consapevole di tutti e tre i paradigmi, pur prediligendo forse il terzo.
Un verso che da sempre divide è: You shouldn’t let other people get your kicks for you. Gli studiosi arrivano a traduzioni e interpretazioni che riescono a fare a pugni tra loro. Lei non prende una posizione specifica, ma quando lo ascolta che visione la raggiunge?
Il costrutto slang “get someone’s kicks” può avere due significati opposti. “Prendersi i calci di qualcuno” può essere inteso sia nel senso, letterale e negativo, di “farsi carico dei problemi altrui”, sia in quello, metaforico e positivo, di “vivere un’esperienza al posto di qualcuno”. Tito Schipa Jr scelse la prima accezione, traducendo “lasciar che gli altri prendano per te gli schiaffi”, mentre Alessandro Carrera preferì la seconda possibilità, traducendo “che quello che ti piace nella vita gli altri non lo possono vivere per te”. Io non prendo una posizione perché mi colpisce l’ambivalenza del costrutto: entrambe le opzioni dichiarano in modo diverso l’incapacità della protagonista di assumersi le responsabilità delle proprie scelte. Nel primo caso, la superficialità di Miss Lonely danneggia le persone deputate a toglierla dai guai; nel secondo caso, è lei stessa la vittima del suo atteggiamento snobistico.
Nella famosa Diamond & Rust, Joan Baez canta, riferendosi evidentemente a Dylan: sei così bravo con le parole e a mantenere le cose indeterminate. Semplice indeterminatezza, quella della scrittura di Dylan, o universalità della sua arte?
La domanda evoca implicitamente le posizioni di chi ha sempre ritenuto Dylan un artista-truffa e chi invece lo ha esaltato fino al fanatismo come un vero e proprio profeta. Magari a qualcuno potrà sembrare una visione un po’ snob, ma io tendo a considerare ridicole sia le divinizzazioni della dylanologia sia i pregiudizi di molti accademici che gridano allo scandalo ogni volta che sentono il nome di Bob Dylan. Quanto invece al sarcasmo di Joan Baez, è anch’esso a suo modo ambiguo, dato che rivela una certa invidia verso questa capacità di “keeping things vague”, di vivere e comporre senza “appartenere” a nessuna ideologia, religione, comunità o… amante. Che piaccia o no, la grandezza dell’arte dylaniana, nonché la sua universalità, va misurata anche in funzione del suo necessario “opportunismo”.
Dylan ha dato più volte prova di usare le sue canzoni come un bambino col pongo. Mi viene in mente l’esempio di Tangled Up in Blue. Che differenza di approccio c’è tra le due canzoni dal punto di vista affrontato nel libro?
Tangled Up in Blue, come le altre canzoni di Blood on the Tracks e in generale tutti gli album dylaniani degli anni Settanta, appartiene a una fase poetica successiva, in cui il concetto di “canzone tridimensionale” si applica a brani molto distanti tanto dalla letteratura beat quanto dal “thin, wild mercury sound” della trilogia rock. In termini di composizione performativa, la maggiore novità riguarda il tentativo di tradurre in termini poetico-musicali le tecniche pittoriche di Norman Raeben, maestro di Dylan e oggetto delle ricerche del già citato Fabio Fantuzzi. Se in futuro mi capiterà di consultare le fonti orali e scritte di Tangled Up in Blue, sarà mia cura adottare una metodologia che tenga conto anche delle scoperte di Fabio.
Like a Rolling Stone, come abbiamo detto, non nasce come brano musicale, visto che uno scritto dell’autore, lungo decine di pagine, lo conteneva in nuce. Un’idea probabilmente bizzarra: quello scritto non sarebbe potuto diventare la contemporanea Ballata del Vecchio Marinaio di Samuel T. Coleridge? In fin dei conti Dylan ultimamente ha dato prova di trovarsi nel suo brodo primordiale con “composizioni lenzuolo”, come ha dimostrato in Murder Most Foul.
All’archivio ho avuto modo di leggere numerose prose dattiloscritte di quegli anni, ma non sono riuscito a individuarne una che potesse verosimilmente corrispondere al testo perduto di cui parla Dylan. Per certi versi però lo stesso Tarantula può essere considerato una sorta di long piece of vomit dato alle stampe. Non mi è capitato di ritrovare citazioni tratte da Coleridge, ma tutto è possibile, conoscendo le doti “manipolatorie” di Dylan. Quanto a Murder Most Foul, è senz’altro vero che intende richiamare lo stesso gusto citazionistico di alcune impossibili pagine di Tarantula, ma lo scopo dell’operazione mi sembra del tutto opposto: quel ventenne che si divertiva a demistificare la cultura istituzionale è ora divenuto egli stesso una autorità ben consapevole del suo contributo alla storia della popular music come della letteratura. E ciò, come dicevo prima, non è affatto in contraddizione con la poetica dylaniana.
Dopo tutto questo studio, cos’ha capito del signor Bob Dylan?
Ho capito quello che si può capire di tutti i grandi interpreti del nostro tempo: poco o nulla. E questo poco non può che confermare l’irriducibilità dell’arte dylaniana a qualsiasi categoria che abbia l’ambizione di contenerla nello stesso modo in cui la voce di Dylan è riuscita a contenere le contraddizioni del mondo contemporaneo. Per questo, non basta semplicemente amarlo od odiarlo, metterlo in una classifica, dichiararlo la “voce di una generazione” o ricordarci quale sia stato il suo ruolo nella nostra vita. Anche il Nobel diventa, in questa prospettiva, irrilevante. Non fa che legittimare l’ovvio, “assegnando all’Everest il titolo di ‘montagna più alta del mondo’” (parole di Leonard Cohen). Quello che bisogna fare è riservare a Bob Dylan l’unico privilegio che realmente gli dobbiamo e che oggi è sempre più difficile concedere ai grandi: provare a conoscerlo davvero, senza pregiudizi.
Corrado Ori Tanzi