Salvador Dalì ne fu così ammaliato da definirlo il vero surrealista del rock di “un’età in cui regna la confusione e in cui nessuno capisce niente” e da dedicargli niente meno che un ritratto. Frank Zappa non ebbe dubbi a dichiarargli il suo amore musicale quando ascoltò una manciata di canzoni dei suoi Spiders che duravano due minuti l’una ma con venticinque cambi dentro. «Neanche i Mothers (Mothers of Inventions, la sua band, nda) sono capaci di fare una cosa così. Non capisco che musica facciate ma dovete avere subito un contratto», gli disse.
Vincent Damon Furnier, per l’intero mondo Alice Cooper, è giunto a 73 anni tra pitoni indossati in concerto, ghigliottine a simulare la sua esecuzione, camicie di forza ed ettolitri di sangue versati. E nel silenzio pandemico ha sfornato un disco che è volato dritto dritto in cima alle classifiche. Dedicandolo alla sua città natale.
Il Bela Lugosi del Rock
Detroit Stories è la summa della sua carriera. Quel bel sano suono che esce ancora cattivo da strumenti e gola ma che in realtà si nutre (soprattutto) di quel caro, vecchio e mai morto rock and roll variamente declinato. Come i Ramones, gli Stooges, Iggy Pop senza Stooges, MC5. Musica che, quando si potrà ritornare a suonare dal vivo, potrà essere di nuovo vestita con la teatralità riconosciuta a questo Bela Lugosi del rock, padre dello shock-rock, ma che nel lettore gira di un limpido con quel ritmo incandescente e inarrestabile prime Rock ‘n Roll (titolo mica per caso), Go Man Go e Our Love Will Change the World.
Musica sporca, canzoni grezze che chiamano a bordo blues-rock, punk, garage, hard rock per un viaggio da trascorrere come si deve viaggiare nella Motor City per eccellenza, Detroit appunto. Ci accompagnano vive pulsioni ritmiche (Independence Day), chitarre fumanti (I Hate You) e, in un micidiale duetto con l’armonica, intinte nel blues (Drunk and in Love) e l’hard che ammicca a quel sound una volta definito “fm music” come non se ne sentono più dagli anni Ottanta (Detroit City 2021).
Band micidiale
E per omaggiare la città in cui è nato, Cooper non ha fatto economie. Ha chiamato Wayne Kramer (sei corde degli MC5), Johnny “Bee” Badanjek (batterista dei Detroit Wheels), Paul Randolph (basso dei Motor City Horns). E un ragazzo di settantun anni come Bob Ezrin in cabina di regia (ma con lui Alice Cooper è di casa).
Metterci la faccia con quindici brani inediti senza diventare un fenomeno da baraccone significherà pur qualcosa, no? Alice Cooper è un’idea che non vuole tramontare. Chi lo ama lo segua. E se col tempo ogni rivoluzione diventa mondo datato e le sue pieghe più eccentriche rischiano di tradursi in triste show, possiamo affermare che questo non è il caso di Alice Cooper.
In attesa del suo prossimo incubo scenico sul palco, godiamoci questa musica che non vuole scoprire niente. Ma riproporsi suonata e cantata come si deve.
Corrado Ori Tanzi















