Andy Warhol è stato un uragano che non solo sconvolse il mondo dell’arte pittorica, ma che soffiò impetuoso sugli anni Sessanta e travolse l’intera società, passando dai sotterranei e raggiungendo l’establishment. Il suo connubio con la Pop Art per aver fatto arte con le lattine di zuppa o le serigrafie riprodotte come catena di montaggio delle personalità dell’epoca è davvero solo un pezzetto della sua storia.
Da poco Feltrinelli ha fatto uscire Popism (25 euro, 384 pagg.), un lungo viaggio negli anni Sessanta guidato dagli occhi e dalla memoria di questo artista con i capelli argentati, unico a seguire un’idea di arte altrettanto unica.
A tradurre questa non-autobiografia (capirete il perché della definizione) è stato chiamato Alessandro Carrera, professore all’università di Houston e nome ben conosciuto nel mondo della cultura per la sua attività di saggista e traduttore (ufficiale) per l’Italia di Bob Dylan. Con lui, l’obiettivo di far luce sullo spirito warholiano che aleggia nelle pagine di Popism.
Il traduttore è anche il primo lettore dell’autore tradotto. Che idea si è fatta dell’uomo Andy Warhol racchiuso in Popism?
Non è veramente possibile farsi un’idea dell’uomo Warhol dai suoi scritti, in gran parte perché la stesura vera e propria è opera di Pat Hackett, che per più di dieci anni è stata la sua “diarista”. Lui le telefonava ogni giorno e le raccontava chi aveva visto, dove era stato, che cosa aveva fatto, e lei scriveva. È per questo che Popism ha una vera struttura da romanzo autobiografico che Warhol da solo non gli avrebbe mai dato. Lui preferiva parlare poco, per monosillabi e aforismi, e non scriveva. Del resto, molte autobiografie di celebrità sono messe insieme così. Bisogna dire però che una “voce” si sente. Il libro non è solo l’opera di una scaltra biografa. È molto immediato. Siamo veramente lì con lui che racconta, è molto coinvolgente. Ma di lui veniamo a sapere solo quello che ci vuole dire; il resto è il ritratto della New York alternativa degli anni Sessanta, ed è comunque interessantissimo.
Perché nella prefazione scrive: “Mai fidarsi di Andy Warhol”?
Perché era la persona più sfuggente che si possa immaginare, tanto che alcuni dei suoi stessi collaboratori, non so con quanta competenza a dire il vero, lo assegnavano allo spettro autistico. Non ci si poteva aspettare da lui che dicesse “come la pensava” su questo o su quello. Quando si ritirava in se stesso era impossibile tirargli fuori una parola. Sapeva quello che faceva, ma non in termini che potessero essere facilmente comunicati, tranne che con le sue opere o le sue attività. Non ci si poteva nemmeno aspettare che dicesse la verità o che si comportasse in modo responsabile. Finché non si è reso conto di essere davvero un nome e di far parte di un vero e proprio mercato, si comportava come molti esponenti della controcultura degli anni Sessanta, che disprezzavano la fama, la riconoscibilità e i media – anche se li cercavano – e volevano essere riconosciuti, o così facevano credere, solo da quelli che erano come loro, che erano parte del loro giro, o che erano i loro idoli. L’idolo di Warhol era Picasso. Avrebbe voluto che Picasso sapesse di lui, che gli dicesse bravo. Al telefono faceva rispondere qualcun altro agli intervistatori che credevano di parlare con lui e una volta addirittura mandò qualcun altro a fare un giro di conferenze al suo posto, facendo credere che fosse lui. Gli organizzatori se ne accorsero dopo mesi, il che ci fa capire quanto le informazioni fossero ancora lente a circolare; Warhol era già famoso, e molti non sapevano nemmeno che faccia avesse.
Pescando ancora dalla prefazione, lei afferma che il genio di Warhol è stato quello di far nascere nella gente la necessità di possedere quello che aveva già senza sapere di averlo, non come se fosse arte ma in quanto arte. Nel senso che la famiglia Smith sapeva di avere sei bottiglie di Coca-Cola nel frigorifero ma non aveva la più pallida idea di averci invece messo sei opere d’arte?
Più o meno è così, ma quelle sei bottiglie di Coca-Cola avrebbero dovuto essere firmate da lui per essere tenute in casa in quanto arte. Non è la stessa cosa, per dire, del musicista rock che ti firma una chitarra, perché il musicista non pretende di avere trasformato in un’opera d’arte la chitarra che ti ha firmato, ma chi è stato elevato a livello di “artista” qualunque cosa faccia, come è stato il caso di Warhol, può effettivamente firmare i soggetti dei suoi quadri e “trasfigurarli” in arte. Del resto, lui stesso racconta di aver a volte comprato cose che pagava firmando lattine di minestre Campbell. Stabilire che valore abbia quella firma, e in quale senso l’artista diventi “l’autore” dei soggetti delle sue opere, è un problema complicato, che forse ha cominciato a porsi con Salvador Dalí che diceva: “Io firmo tutto”.
Nel libro non mi ricordo un giudizio del pittore su qualcosa o qualcuno. Mi sembra che il suo ossigeno fosse la partecipazione alla girandola creativa delle mille luci della New York negli anni Sessanta, dal Village alla Manhattan gonfia di dollari. Queste pagine appaiono cioè memorie di uno a cui non interessava essere un Maestro, ma adorava il ruolo di sceneggiatore e regista della scena presente alla sua rappresentazione.
Andy Warhol era affascinato e sedotto dalla celebrità tanto quanto lo erano coloro che frequentavano lui perché era una celebrità. Era il primo a essere un fan delle celebrità. Per il resto, il suo atteggiamento era quello del pop più estremo: non c’è niente da imparare, non c’è niente da insegnare, niente ha significato, niente ha importanza, sotto la superficie non c’è niente. Era una posa, ma era anche la posa che dovevi prendere se volevi apparire cool e hip. Sempre aggiornato, sempre sulla breccia, sempre all’avanguardia, ma come se non te ne importasse assolutamente niente. Che è il perfetto travestimento di chi in realtà è un gran manipolatore, come di fatto lui era. E comunque non si sarebbe mai messo ad articolare un “giudizio critico” su questo o quel pittore. La sua mente funzionava per fascinazioni, non per giudizi. Aveva una sincera stima per Robert Rauschenberg e Jasper Johns, e sembra di capire che considerasse Roy Lichtenstein un suo pari. Non aveva niente in comune con gli espressionisti astratti come Pollock o Rothko, ma non credo che disprezzasse la loro pittura; è che li trovava troppo aggressivi o troppo deprimenti.
Glielo chiedo perché Warhol è così attento a parlarci di feste, liti, circolazione di droghe, incontri sessuali, improvvise follie esibizionistiche ai party e tensioni sociali da agire, con i dovuti distinguo, come il Truman Capote di A Sangue Freddo.
Warhol aveva una grande ammirazione per Truman Capote, probabilmente superiore a quella che aveva per qualunque pittore, anche per quelli le cui opere comprava e apprezzava (era anche un collezionista, cosa che tra gli artisti è molto rara perché comprare le opere di qualcun altro fa diminuire la tua statura di artista). E poi aveva bisogno di tutto quel turbinio anche mortale che gli girava intorno perché lo stimolava al lavoro. Non so che uso facesse di droghe, a parte le anfetamine per stare sveglio, che negli anni Sessanta erano la norma. Fondamentalmente, la sua droga erano gli altri.
Per un lungo periodo nel libro l’artista s’immerge nella musica. Ci racconta di Bob Dylan, Velvet Underground, Lou Reed, Jim Morrison, Beatles, Rolling Stones, soprattutto nella figura di Mick Jagger, di cui non perde un movimento a New York né omette mai di descriverne il look. Mostra cioè più curiosità per un disco e interesse per il suo effetto nella società che per un lavoro di Robert Rauschenberg o Jackson Pollock. Che cosa avevano musica e mondo discografico che pittura e gallerie non possedevano?
La musica rock aveva il vantaggio di non avere un lungo passato alle spalle. Non era come l’arte o la letteratura, e nemmeno la musica classica o il jazz. Il rock degli anni Sessanta aveva le sue radici, ma a chi non le conoscesse bene poteva anche apparire come sorto in quel momento. Era nuovo come il fungo della bomba atomica. Portava un’estetica, una moda, una serie di comportamenti che non avevano un corrispettivo nel passato. C’erano stati Elvis e Little Richard, ma Dylan, i Rolling Stones e Jim Morrison parevano segnare una rottura totale anche con quello che era stato il rock and roll degli anni Cinquanta. Ogni giorno qualcosa di nuovo veniva inventato, e poteva essere una nuova soluzione musicale o un nuovo capo di vestiario. Per Warhol, che era essenzialmente un occhio che guarda, non c’era differenza tra un nuovo riff di chitarra e un nuovo accostamento tra pantaloni e scarpe. Era tutto eccitante allo stesso modo.
Una forma d’arte che lo conquistò fu il cinema. Si mise alla cinepresa firmando una serie di titoli che qualcuno definisce film e qualcun altro no. Il cinema è composto da immagini in movimento che si legano per narrare una storia, Warhol invece era attratto dalla ripetizione ossessiva di un’inquadratura fissa o dall’accumulo di immagini che non si parlano tra loro. Come considera questa sua forma mentis?
Il suo è cinema che va da un estremo all’altro. Da un lato opera un ritorno al cinema delle origini, ancora prima di Pastrone e di Griffith, quando la cinepresa era una sola, non la si poteva spostare, e i film erano realizzati con una sola inquadratura e senza montaggio, il che li rendeva molto simili a un quadro in movimento. Probabilmente era questo l’aspetto che interessava a Warhol: la ripresa fissa, non più imposta dalla scarsità dei mezzi a disposizione, ma come scelta estetica. Poi sono venute varie tecniche di narrazione discontinua, come lo schermo diviso di Chelsea Girls, che Robert Altman ha ripreso in alcuni dei suoi primi film, e le lunghe scene semi-improvvisate con attori che erano attori solo in quanto rappresentavano se stessi. E infine i film più commerciali (per modo di dire), realizzati nei primi anni Settanta da Paul Morrissey e con Warhol come supervisore e produttore. Il cinema di Warhol non è mai “bello” da vedere, anzi spesso è orribile. Ma ha una durezza, e a volte una verità, che nessuno, nemmeno la giovane Hollywood di quegli anni, poteva eguagliare.
Il suo nome è legato alla Factory. Che cosa fu in realtà, un’ingegnosa forma di marketing o uno spazio libero per far sbocciare l’autentica creatività di chi la frequentava?
All’inizio era uno spazio libero dove chiunque poteva venire a vivere le proprie fantasie, la propria unicità, e soprattutto quello che allora la società avrebbe considerato una devianza. La porta era sempre aperta, non c’era controllo. È stato l’esperimento, all’inizio spontaneo e poi sempre più cosciente, di una “zona liberata” dalle imposizioni della normatività sociale, sessuale, comportamentale e morale. Era un luogo eccitante e pericoloso; potevi trovare te stesso, rimanere bruciato, o tutt’e due le cose insieme, ed è quello che è successo a parecchi che ne sono stati risucchiati. Warhol non dirigeva le attività, era solo il padrone di casa che non interviene in quello che stanno facendo i suoi ospiti, qualunque cosa stiano facendo. Certo, di quell’ambiente aveva bisogno anche lui, e lo ammette. La sua creatività era nutrita dalla bizzarria della folla che entrava e usciva dalla Factory, finché poi tutto è diventato troppo rischioso. In America, se tieni la porta aperta, puoi star sicuro che prima o poi qualcuno ti entra in casa con una pistola in mano. Alla Factory è successo tre volte. All’inizio è stata una donna che ha sparato ad alcune tele e poi se n’è andata. La seconda volta è stato uno squilibrato che voleva dei soldi e ha tenuto in ostaggio Warhol e soci. La terza volta è stata Valerie Solanas che ha cercato di uccidere Warhol perché lui “le controllava la mente” (ha detto lei) e ci è quasi riuscita. A quel punto, era il 1968, si è capito che l’esperimento delle porte sempre aperte doveva finire. La Factory è diventata una ditta, e negli anni successivi ha proprio cambiato pelle.
Warhol morì nel 1987. Oggi che cosa rimane di lui nel mondo dell’arte pittorica?
Questa è una domanda che andrebbe rivolta a uno storico dell’arte, cosa che io non sono, ma è certo che Warhol ha segnato una svolta irreversibile. Però, attenzione, non è che abbia ucciso l’arte trasformandola in puro business. Non c’è stata nessuna operazione di marketing intorno al Warhol degli anni Sessanta. Nessuno l’ha imposto. Si è imposto da solo. Dopo di che, ha gestito il suo successo in modo apertamente e anche sfacciatamente commerciale, ma non è la prima volta che un pittore celebre crea la sua bottega e sfrutta le sue stesse idee fino all’esaurimento. Però è rimasto un pittore fino alla fine, e con il passare del tempo sarà probabilmente la sua pittura a restare, più di tutto il resto.
In definitiva, dati causa e pretesto, Warhol ha vissuto più per l’arte o più con l’arte?
Ha vissuto per l’arte, per la celebrità, per il denaro, per la sua mania di accumulare cose su cose, e negli ultimi anni anche per la sua fede, era un cattolico convinto. Ha vissuto con l’arte perché era un uomo solo con scarse capacità di empatia e molti problemi di relazione con il prossimo. Erano ben poche le persone che lui potesse definire amiche, o che avessero la forza e la determinazione necessarie per stargli vicino.
Corrado Ori Tanzi



