Chi è veramente il traduttore? E quanto conta il suo lavoro nel successo di un titolo? Tra le componenti di un libro quella della traduzione è probabilmente la più sconosciuta al grande pubblico, non certo la più marginale in termini di valore.

Organizzatore di eventi, musicista, amante delle crime-story (o giallo che dir si voglia), Seba Pezzani è soprattutto uno dei nostri traduttori più richiesti. Soprattutto quando si tratta di scrittori o saggisti americani. Un tramite che è una garanzia. Tanto per snocciolare qualche nome, Jeffery Deaver, Joe R. Lansdale, Anne Perry, Mark Twain, Ruth Rendell, Lawrence Block sono passati sotto la sua fatica. 

Un cane sciolto, come preferisce definirsi, ben poco incline ai salotti, ma in grado negli anni di tessere amicizie con i più grandi autori grazie, anche e soprattutto, alla qualità del suo lavoro. Rigorosa attenzione al testo, che esigenze di marketing non si possono permettere di modificare (l’identica battaglia pluridecennale di Riccardo Muti nella traduzione in suoni di uno spartito), e profilo basso perché il traduttore è un veicolo. E un veicolo non siede mai in una prima fila della platea.

Quali sono le qualità prime per diventare un buon traduttore?

In assoluto la conoscenza approfondita della lingua da cui si deve tradurre perché aiuta a capire le sfumature di un testo. Quindi la passione per la scrittura e per la lettura perché è fondamentale possedere la piena padronanza della propria. Chi non conosce il congiuntivo non può fare il traduttore. 

Quali gli ostacoli più infidi?

A mio parere la traduzione letteraria deve essere una traduzione letterale. Non è la scuola maggioritaria, ma non sopporto la forma mentis dei tanti che pensano che un testo si possa “medicare”. Quando sento dire che un dialogo si può rafforzare nella propria lingua mi viene l’orticaria. Tanti scrittori americani con cui ho lavorato o meno mi esprimono la loro contrarietà a questo modo di fare. “Il mio dialogo deve essere tradotto non rafforzato”, sostengono e hanno ragione. Se trovo scritto damn non posso tradurlo col nostro corrispettivo di fuck perché l’autore ha scritto il primo non il secondo. La traduzione deve essere rigorosa. E poi modificare lo stile per renderlo più appetibile ai lettori è né più né meno che un insulto verso lo scrittore.

Inoltre, per quanto sia difficile, è necessario cogliere il senso stretto delle frasi e, per mantenere il loro significato originario, trovare una chiave di scrittura che risulti credibile nella nostra lingua. 

Gli svarioni più divertenti in cui, come lettore, si è imbattuto?

Il primo che mi viene in mente riguarda un romanzo del mio amico Joe Lansdale. La casa editrice aveva affidato la traduzione a un comico televisivo molto in voga al tempo, appassionato di gialli. Leggo il testo e a un certo punto m’imbatto improvvisamente in un batterista che entra in un bosco. Rimango un po’ basito perché questo batterista è spuntato improvvisamente. Continuo la lettura e il batterista scopre una casa abitata. Bussa, gli apre una donna a cui lui vuole vendere delle pentole. E allora capisco tutto. Lansdale con drummer intendeva un piazzista che andava in giro a vendere le sue batterie di pentole. Salvi, la cui conoscenza dell’inglese probabilmente era limitata, invece inserì questo musicista piovuto dal cielo. 

Ma ci fu anche chi scrisse che un rapinatore, appena compiuta la sua impresa, andò anche lui in un bosco ed estrasse la refurtiva dal tronco. Mi sarei aspettato il contrario al limite, che la infilasse dentro un tronco. Poi andai a leggere l’originale e notai che la parola in questione era trunk. Che vuol dire sì tronco, ma anche bagagliaio. Pessimo il traduttore e altrettanto colpevole il revisore della traduzione.

Ha parlato di scuole di pensiero diverse legate al lavoro di traduzione. Quali le differenze?

Premetto che non frequento salotti letterari ed editoriali pur avendo lavorato per tutte le più grandi case editrici. Mi confronto con tutti, ci mancherebbe, ma non faccio parte di alcuna corrente. Lavoro impegnandomi di essere fedele al testo. Fondamentalmente ci sono due scuole di pensiero. Quella del traduttore letterale, professionista della traduzione che non ha di sé un concetto gonfiato, e quella del traduttore invadente, che ha di sé un concetto distorto, uno che si considera allo stesso livello dell’autore e si ritiene in diritto e potere di agire sul testo come se non ne fosse un veicolo, ma lui stesso il creatore di esso. Ora, se pensi migliorare un testo con la tua traduzione sei solo un arrogante.

Qualche anno fa al Salone Internazionale del Libro di Torino ebbe una certa notorietà la questione se fosse giusto o meno pubblicare sulla copertina di un libro il nome del traduttore. Qual è la sua posizione?

Discussione che non mi appassiona. Non è scandaloso farlo, ma è una questione di ben poca importanza. C’è chi lo fa pensando di attirare più lettori, come se esistessero traduttori di così gran nome da essere conosciuti alla massa dei lettori. Teniamo le giuste proporzioni. Un traduttore resta un traduttore, un semplice veicolo del testo. Come se un interprete pretendesse di apparire in un circolino sul video mentre traduce un ospite straniero che sta parlando in televisione. Mi chiedo: al pubblico interessa vedere chi è l’interprete?

Una traduzione affidata a uno scrittore è cosa buona e giusta?

Per il solo fatto di essere scrittore no di certo. Ci sono stati traduttori quali Fernanda Pivano, Primo Levi, Leo Vittorini, Cesare Pavese che come traduttori non ci hanno consegnato il meglio di se stessi. Prendiamo Pivano. Il suo merito nel divulgare in Italia gli scrittori della beat generation è stato immenso e la Storia dovrà riconoscere sempre questo merito. Ma come traduttrice si dimostrò inadeguata perché incapace di cogliere le sfumature della lingua inglese scritta da americani. Qualche tempo fa mi imbattei in una traduzione del Grande Gatsby e mi accorsi della povertà di scrittura con cui questo grande romanzo venne tradotto. Un disastro, Francis Scott Fitzgerald non scriveva certo in quel modo. Ma lo stesso vale per Franz Kafka tradotto da Levi, non certo un favore all’opera del grande scrittore praghese.

Come procede quando si trova davanti a un testo intonso?

Non lo leggo mai prima. La cosa fa inorridire tanti colleghi non fosse per la difficoltà di procedere in questo modo, ma io traduco pagina per pagina senza conoscere in anticipo nulla della storia. Mi complico certo le cose, ma entro meglio nel testo, più a fondo. E mi diverto anche di più perché ogni pagina, ogni sviluppo è una sorpresa.

Ma in definitiva, una traduzione cos’è?

È sempre una “minimizzazione del danno”. La lingua originale, per quanto bravo sia il traduttore, ha sempre e comunque un altro suono.

Quale l’autore più ostico che si è trovato davanti?

Qualche anno fa tradussi per il Saggiatore un saggio di Nate Chinen intitolato La musica del cambiamento sugli scenari possibili del jazz. Mi trovai davanti a uno stile pesantemente involuto davanti al quale mi sforzai comunque di rimanere fedele. La sua scrittura è un concentrato di frasi lunghissime zeppe di secondarie e verbi sostantivati a pioggia. Il mio lavoro fu definito rococò e si attrasse pesanti critiche soprattutto in rete da parte di chi non aveva la minima percezione del testo in inglese. Dovetti difendere il mio operato anche in casa editrice perché naturalmente questi attacchi non lasciarono l’editore indifferente. 

Quale l’autore più esigente?

Non so, forse sono stato baciato dalla fortuna, ma tra gli scrittori con cui ho lavorato non ce n’è uno che non si sia dimostrato amabile. Prendiamo Jeffery Deaver, uno che vende vagonate di milioni di copie in tutto il mondo. Non esiste persona più umile, impossibile non andarci d’accordo ed esserne amico. Mai avuto problemi con gli autori, ripeto, sarà solo questione di fortuna.

Quanto è riconosciuto in Italia il lavoro di traduttore?

Lo è. Questo atteggiamento comune di lamentazione continua è ridicola. Se fai il traduttore sai qual è il tuo destino. Lo sai prima di incominciare intendo. Non diventi ricco da cambiare il macchinone quando vuoi però, se lavori con giudizio, ti può concedere un tenore di vita più che accettabile. Non è un mestiere sottopagato. Il problema non è la questione economica quanto piuttosto la continuità del lavoro. Consideriamo però i lati positivi: lavori da casa, decidi tu gli orari, non hai il fiato sul collo del responsabile ogni minuto come accade in un ufficio. 

Lei è anche un musicista. E in qualità di chitarrista le chiedo: quali gli scrittori più rock e blues con cui si è imbattuto?

Innanzitutto James Sallis. E poi Grayson Capps, musicista dai testi molto letterari, un uomo di grandi letture.  Suo padre, Ronald Everett Capps fu l’autore di Una Canzone per Bobby Long, da me caldeggiato e poi tradotto per Mattioli 1885, romanzo da cui fu tratto l’omonimo film con John Travolta e Scarlett Johansson, con risultati discreti ma di gran lunga inferiore al libro. Grayson ne scrisse le due canzoni centrali. 

Come e dove si sta dirigendo la crime-story americana?

Oggi a far decidere che cosa scrivere sembra essere diventata la fiction noir. La televisione condiziona le scelte perché, almeno negli States, per tanti la massima aspirazione è quella di centrare l’idea che poi venga trascritta in una sceneggiatura per i serial. Imbroccarla significa guadagnare tanti, ma veramente tanti, soldi. Questo è il sogno. Siamo passati da Law & Ordear a True Detective. E, prima di True Detective, Nic Pizzolatto era un perfetto sconosciuto al grande pubblico. Aveva esordito con Galveston ma era restato uno scrittore di nicchia. Oggi può permettersi di tutto. 

Quel che mi piace invece moltissimo delle crime-story americane contemporanee è la tendenza all’ambientazione rurale e provinciale. Non solo Chicago e New York per parlare dell’America quindi, ma anche i più sperduti paesini difficili da trovare sulla cartina geografica. È il racconto di un’America sconosciuta, misteriosa già di per sé e questo come lettore mi affascina molto.

Corrado Ori Tanzi

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