Di certo il fatto di essere un insegnante presso l’Accademia dei cantautori di Recanati aiuta. Il conoscere nel profondo l’arte della canzone gioca un ruolo fondamentale. Marco Sonaglia esprime tutta la sua consapevolezza che la forma canzone può ancora dare qualcosa, pubblicando “Ballate dalla grande recessione”, un nuovo disco a suo nome pubblicato dall’etichetta Vrec e distribuito da Audioglobe.
Marchigiano di nascita, oltre a essere docente, Sonaglia suona con il gruppo dei Sambene con cui, nel 2018, ha pubblicato un album dedicato alla Resistenza nella sua terra. Questo nuovo lavoro in qualche modo ricalca il suo impegno sociale e politico. Per questo nuovo progetto, in cui lui ha composto le musiche si è fatto affiancare da Salvo Lo Galbo (siciliano, giornalista, poeta, traduttore dagli chansonniers). Il risultato è un album che non fa sconti a nessuno, che affronta temi di grande attualità trattandoli in modo diretto, come solo la forma ballata può dar modo di esprimere.
Un disco così tanto dichiaratamente impegnato ci ha incuriosito, così abbiamo chiesto a Sonaglia di spiegarci meglio il progetto.

Già il titolo del disco è una dichiarazione d’intenti. Ma la recessione a cui fai riferimento non è solo economica…

No, certamente. La recessione economica provoca, una recessione culturale, civile ed etica generale.
L’album ritrae una regressione umana a tutti i livelli che purtroppo contraddistingue il nostro presente storico ed evoca pagine di storia come l’Olocausto nazista (per certi aspetti assimilabile all’Olocausto marino cui assistiamo nei confronti dei migranti). È diafana, da una sorta di risonanza di tenebra, dalle tinte fosche che pervadono tutto il disco, questa dolente constatazione. Probabilmente, chi lo sa, se questo disco avessimo cominciato a realizzarlo oggi, la foschia avrebbe ceduto il posto a qualche raggio di sole in più. Ma si consideri il periodo della sua realizzazione: tra il 2019 e il primo 2020. Dal governo Lega – M5S al primo lockdown. Cioè l’arco di tempo più scoraggiante che abbiamo attraversato. Molti, troppi non gli sono sopravvissuti. È naturale che, insieme al bollore dell’indignazione, della rabbia, della necessità di riscatto, rilasci una certa livida coltre.

Un disco senza peli sulla lingua in giorni tragici, dove forse c’è più bisogno di disimpegno, cosa vi ha spinto a scrivere canzoni così “militanti”?

Il disimpegno impera, ma non siamo dell’avviso che ve ne sia il bisogno. La canzone può essere un momento di coscienza, e quale più necessaria e inesplorata coscienza di quella sociale? Anche il personale, la formula di scrittura più frequente in arte, si contestualizza e si risolve nel collettivo. Viviamo tempi bui. Le vittime di questo sistema sono spesso imbottite di ideologia liberale, di droga che le paralizza e viene somministrata da web, tv, cinema e canzonacce. Certo, servirebbe che cose come “Ballate dalla Grande Recessione” godessero di una diffusione più larga, come si dice, “mainstream”. Per arrivare a quel punto occorrono i moti sociali dal basso, però, intanto che crescono (e noi con essi) , seguiamo quell’adagio rivoluzionario che recita: “Fai quel che devi, accada quel che può!”.

Il primo brano che è stato diffuso è stato “Primavera a Lesbo”, un pugno nello stomaco che dipinge uno scenario incrociato tra periodo pandemico e problemi umanitari mai risolti.

È la denuncia di una ipocrisia nel suo insieme. I profughi che sbarcano nelle isole greche sono i fuggiaschi, i respinti, i perseguitati delle guerre che la Turchia muove al Kurdistan, che la Siria muove alla Turchia e la Turchia muove alla Siria. Questa varia umanità in fuga dal Medio Oriente e dall’Africa, viene traghettata a Lesbo e lì rimane in un limbo di disperazione. Il risultato è che tra condizioni igienico-sanitarie a livelli animali, malnutrizione, psicosi collettive, stupri, incidenti, persecuzioni da parte di polizia e neofascisti, i prigionieri dichiarano che avrebbero preferito morire sotto le bombe, invece che languire in un tale inferno. Va da sé che l’avvento della pandemia nel 2020 ha peggiorato una situazione che non si immaginava peggiorabile. È così che a Lesbo si cristallizza la responsabilità collettiva tra tutti i giocatori dello scacchiere imperialista contemporaneo. Un sistema globale che è marcio fino al midollo, che in nessun modo può essere bonificato: deve esser gettato via. La canzone (con tutti i riferimenti cristologici all’ultima strofa) nasce proprio durante la Pasqua 2020 ed è stata l’ultima alla quale ho trovato una melodia. Ma è indubbiamente tra le più iconiche, le più immediate e infatti costituisce la prima traccia nonché il singolo di lancio dell’album.

Nei brani successivi affrontate diversi temi, dedicandoli a personaggi come Claudio Lolli, Mimmo Lucano, Stefano Cucchi, Lola Horovitz, Sacko Soumaila, un operaio messo in crisi dallo smantellamento dell’articolo 18. Questi sono i nuovi resistenti per voi? E come avete scelto i protagonisti a cui sono dedicate le ballate?

Qui occorre un po’ di genesi del disco. Lo Galbo aveva un corpus omogeneo di una cinquantina di ballate, composte tra il 2019 e i primi mesi del 2020.
Con lui, ci siamo conosciuti proprio nel 2019. Venne a Recanati e, dopo aver scoperto straordinarie affinità (dai gusti cinematografici, ovviamente musicali, fino alla militanza politica), mi consegnò un plico di queste strane poesie, che nessuno dei due pensò inizialmente a una loro messa in musica. Durante il primo lockdown, siccome è raro che io non mi sperimenti con le corde tra le dita, recuperai alcuni di quei fogli e mi resi conto che musicalmente giravano. Così inviai a Salvo le prime bozze musicali e decidemmo che una parte di quelle poesie sarebbero state pubblicate in forma orale, come canzoni, in un album. L’operaio, Lucano, Soumaila, Horovitz, Cucchi, in realtà non sono che alcune delle tessere del mosaico che componeva in origine quel progetto di raccolta poetica. E certamente sì, per noi sono i nuovi resistenti e al contempo il prisma delle sempre più spietata barbarie di un capitalismo al capolinea della civiltà.

Tu e Salvo Lo Galbo avete scelto come forma espressiva quella della “ballata”, che ha avuto una storia epica ma che negli ultimi anni non è più in auge. Da cosa è scaturita questa scelta?

La ballata è la forma meno codificata della poesia classica, non ha un assetto ferreo, la ballata cambia, ogni regione la fa a suo modo e anche all’interno della medesima regione trova metrica e disposizione ritmica cangiante.
C’è una sola eccezione, la ballata quattrocentesca francese, che segue regole precise e che ha il suo sommo cantore in François Villon. Vuole essere un omaggio al poeta anticonformista per antonomasia , ma anche un legame all’atavico, universale canto dei dannati della terra di tutti i medioevi che ciclicamente l’umanità attraversa. La ballata villoniana è la poesia medievale realistica e dolente per definizione. Quello che noi attraversiamo è un periodo di regressione, di oscurantismo, di barbarie. Insomma, un medioevo. Villon cantava i “pendus” del Quattrocento, noi cantiamo quelli di oggi. Ma è un unico canto di strazio e dolore. Per questo sono canzoni attuali ma che non cadono nel cronachistico. Il loro respiro è corto, come quello di un impiccato, e stranamente è proprio ciò che gli fa travalicare i secoli.

Il disco si chiude con il brano “La mia classe”. Come dobbiamo leggerla? Come un “j’accuse” oppure come l’epitaffio?

È un j’accuse esplicito ai sindacati confederali, al centrosinistra che ormai è spudorata destra finanziaria e anche a una certa “estrema sinistra” d’antan che ha rinnegato la nostra classe. Ma l’unico senso in cui potrebbe rappresentare un epitaffio sarebbe contro un lungo corso storico di tradimenti e inganni che in Italia la sinistra riformista perpetra da dopo la Resistenza. I versi finali, “e, da niente, sarà tutto”, sono mutuati dal famoso verso de “L’Internationale”: “Nous ne sommes rien, soyons tout!”, “non siamo niente, saremo tutto!”. Come ogni verso de “L’Internationale”, quel verso finale è un sasso lanciato oltre la fitta coltre di questa caverna. Non sono le canzoni a squarciarla, “a canzoni non si fan rivoluzioni”. Ma che le canzoni possano contribuire a indicare là dove c’è da squarciare, ecco, di questo sono convinto.

Salvo Lo Galbo è lo scrittore dei testi, mentre tu hai composto le musiche. A chi e a cosa ti sei ispirato?

Quando ho cominciato a lavorare a questi testi, che essendo ballate scritte sull’endecasillabo, ho cercato di trovare melodie sempre diverse per un unico metro. Sarà che tra i miei maestri eleggo pur sempre Guccini, il più endecasillabante dei cantautori, non ho trovato grossi problemi. Poi è chiaro che una certa canzone d’autore e anche una certa canzone politica fanno parte del mio background musicale. Oltre alle melodie, ho cercato il giusto abito ad ogni canzone, la giusta atmosfera, il giusto suono e la giusta interpretazione per rendere credibile il canto.

Tu sei un docente presso l’Accademia dei cantautori di Recanati, in base alla tua esperienza come sono cambiati gli studenti? E come si pongono oggi in un contesto musicale che è mutato totalmente?

Con la mia collega Lucia Brandoni, fondatrice dell’Accademia, ci siamo accorti che gli studenti che frequentano i corsi non sono poi così cambiati radicalmente. Hanno tutti una buona conoscenza culturale e sono legati alla storica canzone d’autore italiana. Dal punto di vista squisitamente musicale, invece, si fanno via via sempre più ricercati e sperimentali.

Tra nuove generazioni e nuove forme compositive, quale futuro può avere la canzone d’autore

La canzone d’autore gode ancora di ottima salute, i nomi che continuano la tradizione però non passano per le TV e le radio, non hanno la giusta attenzione. Dietro c’è un grande lavoro di artigianato, però ognuno sembra chiuso nella propria bottega, invece bisognerebbe fare una maggiore rete.

Riccardo Santangelo

Marco Sonaglia
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