Se n’è andata d’aprile, il più crudele dei mesi secondo Derek Raymond. A due passi dal 25, momento dell’anno che tirava fuori tutto il suo essere pantera e che nel 1971, negli studi di Canzonissima, celebrò con una versione di Bella Ciao, brano che presentò nella versione originaria di canto delle mondine. 

Il coraggio e la bellezza

Milva è stata il coraggio, la bellezza, il camaleonte della musica italiana. Scorrete un po’ questi nomi: Giorgio Strehler, Enzo Jannacci, Franco Battiato, Astor Piazzolla, Vangelis, Mikis Theodorakis, Alda Merini, Ennio Morricone, Luciano Berio, Paolo Conte, Bruno Lauzi, Bertolt Brecht, Kurt Weill, Juri Camisasca, Giorgos Seferis. La fila è ancor più lunga. Poeti e compositori con cui ha collaborato o che ha interpretato in tutto il mondo. 

Una ricerca inesausta di stili e radici culturali con cui entrare nelle arterie di tango, chanson française, song tedesco, fado, spiritual, gospel, pop, canzone popolare italiana, canti di protesta e della Resistenza, dimostrando l’inesistenza di barriere e frontiere nella musica.

Una Dea sul palco

Dal vivo era una Dea del popolo. L’impressionante padronanza del palco, la potente rappresentazione scenica con cui vestiva le sue interpretazioni di graffiante carica fisica e altezze spirituali le venivano tanto dalla sua vorticosa personalità quanto da una voce di rara potenza e sensualità.

Già, la voce. Quel magnetico contralto che ornava con colori e timbriche calde, profonde, dure come la rabbia o soffici e lucide come il raso. Una duttilità vocale conturbante quanto lei. Estendeva o accorciava la parabola delle strofe con la facilità che riconosciamo alle cantanti liriche (e non è un caso che anche il Teatro alla Scala abbia sentito di renderle omaggio dopo la notizia della sua morte).

Sublimarsi nell’arte

E poi sì, bellissima. Una bellezza palpitante, elegante, nobile più che aristocratica, sofisticata senza essere snob. Rossa chioma ad adornare un volto regolare, stile francese con luce italiana. Vissuta per affermare il ruolo della donna che, per volontà, intelligenza, talento, morale, audacia e valore non parte mai in seconda fila rispetto all’uomo.

Una vita sentimentale i cui dolorosi giri del destino seppe trasformare in maggior potenza sul lavoro come se soltanto dentro l’arte trovasse l’anelito di fedeltà che cercava e in essa si consumasse la vita più vera. Canto e recita, fuori c’era solo rumore. Perché Milva è stata anche attrice, con una carriera in teatro di livello pari a quella che possiamo godere nelle sue incisioni o ricordare nella memoria dei suoi spettacoli. 

Questa canzone vola per il cielo

Non ho citato e non citerò le sue canzoni più illustri. Esercizio di stile di cui potete farne a meno. Chi le conosce le conosce, chi non le conosce e vuole farlo lo potrà fare altrove. 

Però per un titolo mi contraddico all’istante. Nel 1968 Milva portò a Sanremo un pezzo scritto da Don Backy e Detto Mariano. Si classificò terza. S’intitolava semplicemente Canzone. Tanto la musica, minimali tocchi di pianoforte, quanto la voce partono piano. Poi il brano si apre a meraviglia con l’orchestra che disegna un paesaggio infinito. 

Gli archi s’impennano e spingono Milva a tirar fuori tutta la voce che ha per cantare la fine di un amore, con le note nel suo cuore a segnare il suo dolore. Esecuzione a dir poco toccante. Non ho mai smesso di ascoltarla. Anche nella sua versione in giapponese. Ecco, Milva vive in questo brano. Pura melodia nostrana. Anche se, come un angelo, è volata e si è posata su tanti altri fiori della musica e della poesia. 

Corrado Ori Tanzi

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