Se, per sottolineare l’unicità di un’opera del genio, ricorriamo all’aforisma della fantasia che riesce a toccare sponde negate alla realtà, non ci dobbiamo mai dimenticare che la realtà ha in potenza una carica immaginifica tale in grado di dissolvere il più mirabolante volo dell’ingegno creativo. 

E se sul tavolo si schierano potenze mondiali, massime autorità spirituali, apparati di sicurezza deviati, ragion di Stato, spie, intrighi, macchinazioni, depistaggi, reticenze, confessioni seguite da ritrattazioni poi cancellate da nuove rivelazioni che successivamente vengono smentite da abiure e sconfessioni, sussurri improvvisi di verità indicibili, gole profonde, sciacalli e mitomani narcisisti, c’è poco da aprire le scommesse. La realtà trionfa. Ingiusta, bastarda, ingannevole, fonte di sofferenze da ultimo girone infernale, ma unica voce a cui non poter aggiungere niente di diverso.





Fabrizio Peronaci

Fabrizio Peronaci, caposervizio a Roma del Corriere della Sera, esperienza più che trentennale della nera della capitale, ha appena pubblicato Il Crimine del Secolo (Fandango, 376 pagg., 20 euro), saggio che, partendo dall’attentato a papa Giovanni Paolo II il 13 maggio 1981, tocca una serie di azioni criminali generate a pioggia, questa la tesi più accreditata, da quel delitto. Con in primis i sequestri di Emanuela Orlandi e Mirella Gregori.

Peronaci non è nuovo a questo argomento (si ricordano Il Ganglio e Mia Sorella Emanuela, quest’ultimo scritto in collaborazione con Pietro Orlandi, fratello di Emanuela), ma Il Crimine del Secolo cuce insieme una tale massa documentale, impreziosita da confessioni inedite di protagonisti dell’epoca, da offrirci nel suo complesso la spietatezza dell’intera storia. Un racconto dell’orrore. Dove, appunto, la fantasia dell’autore non viene evocata.





La domanda che l’uomo della strada ancora oggi si fa su Ali Agca è: possibile che sia ancora vivo? Mi accodo e le chiedo: considerata la non impenetrabilità delle nostre patrie galere, com’è concepibile che l’attentatore del Papa negli anni di cella che si è fatto da noi non abbia mai mandato giù un caffè un po’ troppo amaro?

La spiegazione emerge nel mio libro Il crimine del secolo. Alì Agca ha avuto salva la vita grazie alla sua furbizia e capacità camaleontica. Dopo la condanna all’ergastolo del 1981, nei quasi vent’anni trascorsi nelle galere italiane ha inanellato ben 107 verità diverse sul crimine da lui compiuto contro il Papa e su chi fossero i mandanti. Si è così costruito un’immagine di totale inaffidabilità e mitomania che ha tranquillizzato coloro che lo avevano armato e spedito in piazza San Pietro. Anche se avesse detto la verità facendo i nomi dei mandanti, infatti, non sarebbe stato creduto. In altri termini, le 107 verità del turco sono state la sua polizza sulla vita.

Glielo chiedo perché, alla luce di ciò che sarebbe successo nei decenni futuri tra polonio, impiccagioni in cella, esecuzioni per la strada e cure mediche inappropriate ad avversari politici e non del governo russo e dei suoi servizi segreti, la strategia dei rapimenti è qualcosa che stupisce per la poca certezza dell’esito. Se me la passa, un’offesa all’intelligenza criminale di chi è abituato a muovere le pedine sulla scacchiera.

Se ci riferiamo ai sequestri che ho trattato nel mio libro, si evince che sia quelli di Emanuela Orlandi e di Mirella Gregori sia quello di undici anni successivo di Alessia Rosati sono rapimenti anomali, portati a termine grazie a un’ingenua e involontaria collaborazione delle vittime. In questo senso, li considero operazioni raffinate e premeditate, capaci di disorientare l’opinione pubblica e spiazzare le controparti. La natura delle azioni richiama modalità tipiche di ambienti legati ai servizi segreti.

Sui rapimenti di Emanuela Orlandi e Mirella Gregori lei riporta una serie di testimonianze che suonano come un autentico pugno nello stomaco. Un investigatore d’alto livello, un agente ex Sismi, un monsignore centenario che conosce i sancta sanctorum del Vaticano, un vescovo che ha lasciato una testimonianza scritta. Le opinioni sulla fine delle due povere ragazze divergono. Lei è sul pezzo da moltissimi anni: che idea si è fatto sul destino di Emanuela e Mirella?

Nel libro emerge una doppia soluzione sul destino delle ragazze e sulla speranza che almeno una delle due possa essere ancora in vita. La mia sensazione, avvalorata dall’analisi della successione dei fatti, è che Mirella possa essere stata eliminata, in quanto il ricatto basato sulla sua persona non andò in porto. Naturalmente spero di no, ma questo è lo scenario che mi pare più credibile. Quanto invece a Emanuela, il caso è più sfumato: la ragazza fu scelta in quanto il primo ricatto basato su Mirella si era dimostrato insufficiente e i rapitori con lei intesero alzare la posta. Va considerato che si trattava di una cittadina vaticana figlia di un dipendente in contatto diretto con il Santo Padre. Ciò rendeva la sua figura infinitamente più delicata e sensibile, e quindi ritengo probabile che vi sia stata un’accortezza in più, nel tentare di salvarle la vita, forse trasferendola all’estero. Quanto alle possibili destinazioni, le più probabili sono due: l’area mediorientale dalla quale proveniva il feritore di Giovanni Paolo II e quella del Nord Europa, lungo la rotta Alto Adige-Svizzera-Lussemburgo. Questa seconda ipotesi si basa anche su alcuni riscontri recenti, tenuti segreti per ragioni investigative, nell’attesa della riapertura formale dell’inchiesta.





Ogni tot anni siamo raggiunti da rivelazioni che man mano intorbidiscono le due storie. Lei prevede o esclude nuovi colpi di scena?

Più che di colpi di scena imminenti, parlerei di una verità ormai destinata a imporsi e facilitata dal combinato disposto delle investigazioni fin qui svolte e dell’analisi storica. Nell’ultimo decennio, anche grazie ai miei tre libri sull’argomento, sono emersi troppi elementi indiziari che riportano al movente e ai responsabili del sequestro e al tempo stesso troppe opacità di un sistema politico-istituzionale-giudiziario che ha di fatto ostacolato l’accertamento dei fatti. La vicenda dello scontro andato in scena qualche anno fa ai vertici della procura di Roma proprio sul caso Orlandi-Gregori è altamente emblematica.

Come giudica il lavoro eseguito dagli investigatori che si sono susseguiti nel far luce ai rapimenti?

Gli inquirenti hanno fatto il possibile, l’impegno non è mancato, ogni pista possibile è stata percorsa, ma due elementi mi pare abbiano complicato le cose. Il primo è la complessità della vicenda per l’affastellarsi di molteplici piani – politico, istituzionale, giudiziario, internazionale, nonché privato, guardando alle tragedie delle famiglie coinvolte – che hanno reso davvero difficile individuare la traccia giusta. Oggi, quarant’anni dopo, la nebbia si è abbassata ed è più facile intravedere il movente e i gruppi di potere interessati all’azione Orlandi-Gregori. Il secondo elemento che ha complicato da sempre il lavoro investigativo è noto: la presenza continua e pressante di depistaggi, alimentati da soggetti a conoscenza dei fatti e interessati ad allontanare da sé i sospetti.

Anche per via della vicinanza con Pietro, il fratello di Emanuela, il caso immagino la tocchi anche umanamente e non solo professionalmente. Lei ha tastato con mano il dolore e la sofferenza di quella famiglia. Quanto le è difficile mettere la giusta distanza tra lei, i fatti, gli Orlandi per avere la corretta percezione di ciò che gli anglosassoni chiamano the big picture?

Verso la famiglia Orlandi, non solo Pietro ma tutta, nel suo complesso, sono mosso da un sentimento di assoluta solidarietà. A loro ho dato il massimo sostegno sia al momento di scrivere con grande emozione ed empatia il primo libro nel 2011, Mia sorella Emanuela, sia nelle fasi successive di sostegno alla battaglia per la verità. In tempi recenti, ho espresso con lealtà il mio dissenso rispetto a talune scelte di Pietro, in particolare con riferimento a un concetto che lui ripete spesso: l’importante è che se ne parli. Io non penso sia così, su un caso complesso come quello di Emanuela, l’importante è piuttosto che si realizzi una ricerca analitica, approfondita e graduale, che di volta in volta porti a esplorare nel dettaglio quanto emerge, senza dimenticare le risultanze precedenti, e soprattutto senza cavalcare ogni volta l’ultima novità purchessia, pur di finire sui giornali o in tv. L’ho detto più volte a Pietro: correndo dietro a tutte le piste si rischia di fare danni alla ricerca della verità e di vanificare il lavoro svolto sugli scenari più seri. Tutto ciò, ovviamente, non scalfisce il sentimento di vicinanza.





Una pista è quella interna al Vaticano. Per quanto lei sia un giornalista d’esperienza e uomo adulto immerso nella contemporaneità, non le procura fastidio associare il luogo spirituale per eccellenza della cristianità planetaria ad azioni turpi, crimini e delitti propri dei sotterranei dell’esistenza umana?

Il disagio principale è nell’aver verificato, sulla base di un’analisi documentatissima sia dei fatti sia delle carte giudiziarie, che all’interno di ambienti religiosi viene ampiamente praticata l’arte del non dire, dell’omettere e del dire il falso. Niente di nuovo. Se così non fosse, non avremmo avuto l’avvento di un Papa innovatore come Francesco, che sta dando più di uno scossone a certe consolidate e cattive abitudini. D’altra parte, con riferimento alle questioni che stiamo esaminando, c’è un’aggravante: la presenza dominante della ragione di Stato, spesso manipolata da apparati di sicurezza deviati, che non si cura né del valore primario della giustizia né della sacra difesa della vita umana, quando è di ostacolo al conseguimento dei propri obiettivi.

Ipotizzando che dietro ai rapimenti di Emanuela e Mirella ci fu l’Unione Sovietica, perché la famiglia Orlandi si oppose alla grazia ad Alì Agca? Se i destini delle due giovani erano legati a quello di Agca, la liberazione di quest’ultimo non avrebbe portato alla fine del loro incubo?

La pista rossa, in base all’analisi delle carte processuali e segrete che ho avuto modo di consultare per la stesura del libro, è forse la più accreditata. Da quanto mi risulta la famiglia si oppose allo scambio non all’inizio ma dopo alcuni mesi dalla scomparsa di Emanuela, a causa delle tante promesse non realizzate. Più che legittimamente, a un certo punto i familiari si sentirono presi in giro. Quanto alla matrice rossa dell’operazione, ho maturato dubbi e propenderei maggiormente per un’azione di depistaggio, in modo da allontanare i sospetti dell’attentato e del sequestro Orlandi-Gregori da ambienti operanti all’ombra del cupolone. O meglio, per essere più precisi, all’ombra del torrione dello Ior.





Con una certa costanza, nella sua narrazione esce il nome di Marco Fassoni Accetti. C’è da rimanere sbalorditi per tale presenza. Mi ha dato l’idea di una versione nera di Gabriele Paolini, il disturbatore nei collegamenti in esterno delle televisioni, sempre pronto ad azzannare il momento propizio. Come lo inquadra?

È uno dei punti più controversi. Dopo trent’anni si materializza un uomo che consegna il flauto riconosciuto dalla famiglia Orlandi come quello di Emanuela, che mette a disposizione degli inquirenti la sua voce, per confrontarla con quella dei telefonisti dell’epoca, ed effettivamente tutti possono riscontrare la somiglianza, che fornisce alcuni elementi di conoscenza inediti, come la connessione con altri gialli irrisolti, ma questo stesso personaggio nessuno lo vuole prendere in considerazione. Strano, no? È proprio attorno all’opaca e inquietante figura di Marco Accetti che si verifica lo scontro in procura che ho ricostruito con documenti e retroscena. Ma tanta determinazione nel volerlo tenere fuori dal caso Orlandi-Gregori non si spiegherà con il fatto che tale personaggio porge un filo che porta troppo lontano, verso verità scomode? D’altronde, analizzando il suo profilo, l’ex indagato corrisponde a ciò che all’epoca serviva: un giovane spregiudicato, estremista, pieno di sé, abile nell’uso di macchina fotografica e cinepresa per realizzare lavori sporchi, dal dossieraggio contro alti prelati a vere e proprie azioni di ricatto. Era l’elemento operativo ideale per gruppi di potere coperti, in quanto figura altamente depistante, da etichettare come narcisista e mitomane nel caso fosse stato individuato. La differenza è che si è fatto avanti da solo, trent’anni dopo, spiazzando molti.

I casi che racconta, fatto salvo quello dell’attentatore a Papa Giovanni Paolo II, ci mettono davanti a un film già visto, almeno nell’Italia del dopoguerra. La discrasia tra verità giudiziale e verità storica è un’abitudine a cui l’italiano medio non fa neanche più caso. La bomba di piazza Fontana, la morte di Pier Paolo Pasolini, l’incidente aereo in cui perì Enrico Mattei sono solo alcuni esempi, insieme naturalmente alla delicata materia della sua inchiesta. Un fio necessario da pagare per tenere in piedi la nostra democrazia o un cancro che si può curare?

Non credo sia mai giusto rassegnarsi alla mancanza di verità giudiziaria, perché essa dimostra l’incapacità di un sistema democratico di garantire un bene assoluto e primario come la giustizia per tutti i cittadini. I casi Orlandi e Gregori, così come il precedente attentato al Papa, che ne rappresenta l’evento scatenante, si collocano nell’ambito di quel tremendo periodo di trame e affari sporchi che ha segnato la fine del secolo scorso, con l’aggravante di una presenza subdola e potente come quella massonica.





Se è vero che ogni delitto è inserito in un suo specifico contesto storico, ritiene che quelli di cui parla nel libro non potrebbero più accadere oggi?

Gialli di questo genere, da Emanuela e Mirella a Katy Skerl, da Josè Garramon ad Alessia Rosati, sono figli del loro tempo. Ma certe dinamiche del potere contiguo ad ambienti criminali e spionistici regolarmente si ripetono. Prima de Il crimine del secolo ho raccolto in un libro pubblicato nel 2019 i cold case del decennio 1990-2000 e, tra questi, i sequestri di Davide Cervia e del giudice Paolo Adinolfi presentano motivazioni e sviluppi molto simili.

La storia della nostra Repubblica racconta anche di tanti giornalisti spariti o uccisi per via delle loro inchieste. Lei non ha mai avuti dubbi sullo scrivere e licenziare Il crimine del secolo?

Svolgere fino in fondo con passione e serietà il lavoro di cronista e di osservatore del proprio tempo, cercando di portare alla luce verità non dette, implica una certa dose di rischio, che ritengo vada affrontata con coraggio, ma anche prendendo le dovute cautele.

Qual è stato il passo o il capitolo più problematico da mettere insieme?

La ricostruzione dell’attentato al Papa indubbiamente è stata complessa, in quanto ho cercato di condensare tutte le possibili piste in ogni direzione, da quella dell’Est alle altre meno raccontate, in primis quella occidentale e quella interna allo Stato Vaticano. La difficoltà maggiore, tuttavia, è stata mantenere il massimo rigore e la più alta fluidità narrativa nel descrivere le connessioni tra l’evento primario, l’attentato al Papa, e i suoi tragici effetti collaterali, vale a dire i sequestri Orlandi-Gregori e gli altri gialli collegati, ai quali ho dedicato la seconda parte del libro.





 C’è stato un momento in cui si è detto: “Ci siamo, la verità sta finalmente venendo a galla”?

Certo, a più riprese. E ne sono tuttora convinto. In queste ore nel mio gruppo di giornalismo investigativo su Facebook ho dato notizia dell’esistenza di un secondo Corvo che starebbe per rivelare verità importanti, tramite documenti prelevati in Vaticano. Dispiace, ma la storia si ripete: per liberare la Chiesa dal vizio della reticenza serve che qualcuno tradisca, e in fondo poi non è solo un male. Nei casi che ho raccontato, il filo rosso è rappresentato dal ricatto per salvaguardare gruppi di potere legati al quadro geopolitico del tempo, quando la Guerra Fredda era nel vivo e non si badava più di tanto al valore di una vita umana, nel nome di un malinteso esercizio della ragione di Stato. 

Che cosa l’ha colpita di più di tutte queste vicende?

Mi pare sia già emerso in questa lunga conversazione, di cui vi ringrazio: la distanza siderale tra lo Stato infiltrato da poteri criminali e la vita delle sfortunate famiglie coinvolte, costrette a reclamare per decenni la verità e una tomba sulla quale portare un fiore. 

Ma, dati causa e pretesto, come cantava Guccini, doveva andare proprio così?

Purtroppo in Italia sì. La lunga e terribile stagione delle bombe, delle stragi, del terrorismo e dell’intreccio tra ambienti politici e criminali ha generato questo risultato: una lunga serie di storie irrisolte e di misteri di Stato, che solo un giornalismo a schiena dritta e una pubblicistica coraggiosa potranno portare alla luce.

Corrado Ori Tanzi





Fabrizio Peronaci
Copertina1
Fabrizio Peronaci Copertina1

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