Che la carriera di Dan Auerbach e Patrick Carney, aka The Black Keys, fosse segnata alle radici dal blues lo capimmo dall’inizio. Prendete The Big Come Up, l’album d’esordio lontano vent’anni, aperto da due pezzi omaggio a R.L. Burnside e Junior Kimbrough, o al tributo a quest’ultimo nel tanto apprezzato EP del 2006 Chulahoma.
Pur fuori dalle celebrazioni, nei loro pezzi originali (garage o meno) il loro stile non ha mai dimenticato l’ispirazione primaria che sta alla base della loro musica. El Camino, Turn Blue, Let’s Rock, tanto per citare alcuni loro titoli, si alimentano anche del suono ruvido e grezzo del genere musicale tanto amato dal diavolo.
Jam session di due giorni
La band ora esce con Delta Kream, album di undici cover di cui sette prese proprio dal repertorio di Burnside e Kimbrough. Un disco nato da una jam session di due giorni a suonare solo pezzi derivanti da quel nodo di stili che conosciamo con il termine di Hill Country Blues, musica di sangue e polvere che muove i suoi passi nel confine tra il Tennessee e il nord del Mississippi.
Poi Auerbach e Carney hanno portato agli Easy Eye Sound di Nashville (lo studio di Auerbach) niente meno che Kenny Brown, ex chitarrista di Kimbrough, e Eric Deaton, bassista di Burnside e in presa diretta hanno registrato in dieci ore undici cover dei loro due eroi e, una ciascuno, di John Lee Hooker, Big Joe Williams, Mississippi Fred McDowell e Ranie Burnette.
Eppure…
Riff belli spessi di chitarre su un esile grappolo di accordi, ritmica dura, zero abbellimenti perché il suono risultasse ipnotico di suo, steel elettrica a dare quel tocco di “tempo senza tempo”, canto sempre ben quadrato, la cornice è impostata come meglio non potrebbe.
Eppure il disco suona piuttosto insapore. Il rispetto della filologia musicale e la cura appassionata dei Black Keys non riescono ad andare oltre alla patina dell’esercizio di stile. La sincerità di Auerbach e Carney non riesce non solo a estrarre dalle composizioni la potente urgenza che emanano le versioni originali ma non riesce proprio ad avere un’espressività tale da evitare di marchiare il disco con una certa noia prolungata.
Lasciamo riposare la Storia
Sia chiaro, non mancano momenti di destato interesse, come l’esecuzione del classico Crawling Kingsnake (di cui anche i Doors fecero una loro versione) e la ballabile Walk with me e una Going down south, impreziosita dal falsetto di Auerbach, ma l’operazione di remake presa nella sua globalità risulta insipida.
Come ha scritto Kory Grow di Rolling Stone US, “a volte è meglio lasciare la Storia lì dove sta”.
Corrado Ori Tanzi