Di questi tempi non è insolito sentir parlare di “ricerca traslazionale” in medicina. Come fa intuire il termine stesso, si tratta di un settore della ricerca di base che getta un ponte in grado di consentire il più rapido trasferimento possibile di nuove scoperte ed evidenze di laboratorio alla terapia ed alla gestione clinica del paziente, grazie a terapie innovative che tutti sperano e speriamo possano risolvere le problematiche cliniche più urgenti.
Se restringiamo l’azione al campo oncologico, la ricerca traslazionale ha come obiettivo la trasformazione delle scoperte scientifiche che arrivano direttamente dal laboratorio in applicazioni cliniche con un unico obiettivo: ridurre l’incidenza e la mortalità del cancro. Un ramo della ricerca scientifica che gli americani riassumono in modo molto sintetico con il detto “from bench to bedside”, cioè dal banco di laboratorio al letto del paziente.
Ma, come ormai tutti abbiamo imparato dalle storie di cronaca sanitaria più recenti, l’applicazione in ambito clinico diagnostico e soprattutto terapeutico può avvenire molti anni dopo la sperimentazione di laboratorio, sia per le normative di legge vigenti sia per gli enti regolatori che disciplinano l’immissione in commercio di nuovi farmaci a salvaguardia della sicurezza e della salute dei cittadini.
La ricerca in oncologia traslazionale riunisce, dunque, le competenze necessarie a promuovere la progettazione e l’esecuzione di progetti di ricerca multidisciplinari relativamente alle malattie oncologiche per lo sviluppo di nuovi approcci terapeutici anche personalizzati grazie alla sua capacità di svolgere ricerca di base, applicata ed industriale nell’ambito della biologia dei tumori, al fine di ampliare le nostre conoscenze sui meccanismi molecolari della trasformazione neoplastica e della sua progressione clinica.
Per sgombrare il campo da inutili dubbi e imprecisioni abbiamo scomodato la dottoressa Vittoria Zinzalla, direttore esecutivo e responsabile della ricerca mondiale in oncologia traslazionale di Boehringer Ingelheim a Vienna.
Dottoressa Zinzalla, qual è stato il percorso che l’ha portata ad occupare un ruolo così importante nell’ambito della ricerca farmaceutica oncologica?
Dopo essermi laureata in biotecnologie con una tesi sulla biologia del cancro all’Università di Milano Bicocca, dove ho conseguito anche il dottorato di ricerca in biologia cellulare, mi sono spostata in Svizzera dove ho lavorato 5 anni come “postdoc” al Biozentrum dell’Università di Basilea occupandomi di meccanismi molecolari oncologici. In questa occasione la mia attività era incentrata più sul campo applicativo, ad esempio testando per Novartis delle molecole contro il tumore del seno e della prostata e firmando trial pubblicati su riviste del calibro di Cell e Science.
In seguito, ho lasciato Basilea e il mondo della ricerca, dove probabilmente avrei potuto intraprendere la carriera accademica come assistant professor, per entrare in un’azienda farmaceutica con l’idea di sviluppare molecole con le quali poi sarebbe stato possibile trattare pazienti portatori di tumori, dare loro una nuova opportunità e scoprire davvero qualcosa che poteva avere un impatto su una malattia così devastante.
Dove si è diretta dopo l’intensa esperienza svizzera a Basilea?
A questo punto si è presentata l’opportunità di entrare in Boehringer Ingelheim a Vienna, dove risiedo da 10 anni, con il ruolo di Lab Head. Dai composti chimici in Novartis sono così passata a studiare gli anticorpi monoclonali, caratterizzati da una maggiore specificità e un minore impatto dal punto di vista degli effetti collaterali. Boehringer è un’azienda solida, con una fortissima impronta familiare e obiettivi di “long term vision” per i pazienti, ma non ancora così conosciuta in campo oncologico come in altri in altri settori della ricerca focalizzati sulle malattie respiratorie e cardiometaboliche. In oncologia stanno investendo molto: nel corso di questi 10 anni ho avuto l’occasione di visitare e lavorare in diverse sedi mondiali dell’azienda, da Ingelheim dove sorge la casa madre, a Biberach in Germania, a Milano in Italia e a Ridgefield in Connecticut negli Stati Uniti. Da circa due anni e mezzo dirigo il settore dei biomarcatori, che significa non solo sintetizzare nuove sostanze per sviluppare potenziali trattamenti per i pazienti oncologici, ma anche capire quali sono i pazienti che possono rispondere meglio al trattamento.
Può spiegare con parole semplici a noi, comuni mortali, di che cosa si occupa la ricerca in oncologia traslazionale?
Quando si sviluppa una nuova molecola, che nel nostro team definiamo “new therapeutic concept”, cerchiamo di capire in quale direzione focalizzarci, con quali indicazioni e quale popolazione di pazienti potrebbe trarne i vantaggi maggiori. Si tratta, quindi, di selezionare i malati nei quali un trattamento innovativo potrebbe evidenziare i migliori risultati in termini di sicurezza ed efficacia e – sempre nell’accezione più ampia del termine “traslazionale” – capire quali dosaggi applicare e in quanti intervalli di tempo somministrarlo. Quando trasferiamo in clinica un farmaco innovativo, precedentemente testato in laboratorio su modelli murini o animali, dobbiamo capire subito fin dalle prime evidenze se l’azione di tale molecola si traduce in quello che avevamo progettato.
Quindi con il termine “traslazionale” si intende – ed è quello di cui mi occupo – la capacità di tradurre un nuovo concetto proveniente dalla biologia di base nel “very early clinical development”, cioè nello sviluppo clinico più precoce di un trattamento oncologico. Significa capire quale paziente che potrà beneficiarne e come gestirle il nuovo farmaco in termini di indicazioni terapeutiche, dosaggi e posologia. È fondamentale ribadire come nelle prime fasi di sviluppo clinico di una terapia, con riferimento soprattutto a nuovi farmaci immunoterapici molto complessi, l’approccio non può che essere “sperimentale”. Tutti aspetti per definire i quali cerchiamo di individuare i marcatori biologici più utili, dalla genomica all’individuazione di difetti genetici a livello molecolare, grazie anche alla possibilità oggi di utilizzare quantità limitate di campioni tissutali prelevati dai pazienti attraverso cui implementare un numero molto elevato di indagini.
Mi sembra di capire che la direzione oggi verso cui si sta dirigendo la ricerca di base, ma non solo in campo oncologico, sia quella della medicina di precisione.
Quando otteniamo delle nuove molecole, come gli agenti sviluppati per contrastare la proteina mutata KRAS, che rappresenta un importantissimo drive della crescita tumorale comune soprattutto nei tumori del pancreas, del colon retto e del polmone, ci troviamo di fronte alla necessità di “selezionare” i pazienti ai quali verranno somministrati. Perché non tutti i pazienti risponderanno a queste molecole avanzate, che noi definiamo “small molecules”, cioè piccole molecole. Quindi medicina di precisione significa non esporre qualunque paziente a questi farmaci, ma solo i pazienti che presentano una specifica mutazione della proteina KRAS e che siamo sicuri risponderanno alla terapia anticancro. Va da sé che oltre alla selezione del paziente si debbano individuare anche i dosaggi più efficaci e il numero dei cicli di trattamento da somministrare a tali pazienti.
Prendo spunto da una sua presentazione all’American Association for Cancer Research |AACR| del 2019 e le chiedo che cosa sono i farmaci che bloccano la via di segnalazione WNT.
Si tratta di un progetto che ho sviluppato quando sono arrivata in Boehringer Ingelheim. In realtà sono una tipologia di anticorpi monoclonali derivati dal lama, che risultano specifici per questa via di segnalazione cellulare |costituita da una famiglia di 19 proteine distinte, NdR| alterata soprattutto nel cancro del colon-retto, ma anche in altri tipi di tumori come il carcinoma del pancreas. Oggi abbiamo a disposizione un farmaco in grado di bloccare questo fattore di crescita in grado di stimolare la proliferazione delle cellule neoplastiche e la loro diffusione metastatica in pazienti con una specifica mutazione WNT, chiamata RNF43. Purtroppo, dobbiamo ricordare che la frequenza delle mutazioni geniche nel cancro colonrettale, per esempio, è elevatissima. Inoltre, abbiamo scoperto che questa via di segnalazione cellulare è responsabile non solo della proliferazione cellulare neoplastica, ma anche della soppressione della risposta immunitaria da parte del malato. Quindi, inibire la via di segnalazione WNT significa contrastare la proliferazione tumorale e consentire all’organismo del paziente trattato una migliore risposta immunitaria, che può essere accentuata dall’utilizzo combinato con altri farmaci dotati di tale funzione.
Dalla scoperta della disregolazione della proteina TOR, che media una via di segnalazione in grado di regolare la crescita cellulare nei mammiferi e come tale è coinvolta nei processi di proliferazione tumorale, ad oggi che cosa è cambiato nel mondo della ricerca oncologica?
La proteina mTOR è implicata in un’altra via di segnalazione cruciale, per esempio, nei tumori della mammella e del polmone. Purtroppo, al momento per questa proteina e per la mTORC2 non sono stati ancora individuati inibitori specifici. Quello che oggi si sta cercando di fare è trovare soluzioni farmacologiche capaci di agire più a monte di questa via di segnalazione, come i farmaci capaci di bloccare la proteina KRAS che a caduta inibiscono anche la mTORC2.
Perché è importante organizzare delle biobanche di organoidi tumorali con cellule, per esempio, di tumore della mammella o di altri tumori?
Si tratta di un’operazione ancora una volta associata al concetto di “traslazionalità” della scienza. In uno studio pubblicato su Cell nel 2018, condotto in collaborazione con il gruppo di ricerca olandese di Hans Clevers, è stato possibile creare una banca di organoidi con cellule di cancro della mammella ben caratterizzate da utilizzare per la ricerca oncologica e lo sviluppo di nuovi farmaci antineoplastici.
Un “organoide” è semplicemente la trasposizione in coltura di cellule tumorali prelevate direttamente dal paziente e coltivate in laboratorio con l’obiettivo di indurne la proliferazione fino ad averne una disponibilità sufficiente da poterle utilizzare a scopo di ricerca senza limiti, mantenendo tutte le caratteristiche originarie delle cellule ancora presenti nel paziente. In questo modo è possibile testare in vitro la risposta per esempio a nuove molecole, senza passare attraverso la sperimentazione di particolari linee cellulari o modelli animali vicini all’uomo, ma preservando l’eterogeneità delle cellule tumorali e l’aderenza alla “real life” del paziente. |Non dimentichiamo, ritornando al tumore della mammella, che ne esistono 20 sottotipi diversi, che hanno sempre reso difficoltosa la risposta alla chemioterapia classica, NdR|.
Avere a disposizione una biobanca di organoidi tumorali derivati direttamente dai pazienti significa avere la possibilità di effettuare lo screening di numerose molecole antineoplastiche e identificare anche i marcatori necessari a selezionare i pazienti in grado di rispondere ad una terapia e, last-but-not-least, registrare la risposta dell’approccio terapeutico in parallelo sull’organoide e sul paziente in modo da poter sequenziare anche i trattamenti. Non dimentichiamo quanto nei pazienti oncologici sia estremamente importante il problema dell’insorgenza di resistenza alle terapie, un’eventualità che ora è possibile evitare grazie proprio alla disponibilità di organoidi attraverso i quali predire gli eventuali meccanismi di resistenza cui andrà incontro il paziente.
Dottoressa Zinzalla, che cosa vede nel futuro della ricerca in campo oncologico?
Una maggiore attenzione nella selezione del paziente da trattare e un match più preciso tra la terapia e il tumore specifico del paziente. Non possiamo più trattare tutti i pazienti allo stesso modo con lo stesso trattamento, ma dobbiamo identificare il paziente che lui e lui solo ne può trarre vantaggio. Ma, questa è la mia speranza, riuscire ad individuare i pazienti portatori di una neoplasia nelle primissime fasi del suo sviluppo, grazie anche agli strumenti e alle possibilità di diagnosi precoce tramite specifici marcatori biologici, in modo da poterli curare con assoluta efficacia e sicurezza.
Giorgio Cavazzini